La foto ritrae una furiosa rissa fra i tavoli di un ristorante: in quattro si azzuffano, mentre in un angolo un avventore continua a pasteggiare imperturbabile, un occhio alla bistecca e uno al cellulare. Qualcuno ha trasformato l’immagine in un meme, assegnando all’uomo impassibile la didascalia policy-maker, mentre i quattro facinorosi sono battezzati «accademici che litigano sulle teorie delle relazioni internazionali».

L’analista franco-americano Michael Shurkin – un passato fra Cia e Rand corporation – non ha perso occasione per commentare lapidario sui social: «Non ho mai pensato che la teoria delle relazioni internazionali servisse ad altro che per dibattiti a tarda notte nei dormitori dei college».

Le teorie che provano a gettare senso e spiegare la politica oltre i confini statali navigano dunque in un mare di irrilevanza? La satira coglie nel segno di un pregiudizio diffuso: da una parte la teoria – l’impervio e nebuloso mondo delle idee – e dall’altra, impermeabile alle idee, la realtà, ovvero i fatti. Gli accademici si sfidano a tenzone senza che il motivo e il beneficio dello scontro siano chiari al decisore politico, che con compassata sprezzatura tiene sguardo altrove.

Finita (si fa per dire) la pandemia, per il conflitto con la Russia scatta un po’ il liberi tutti: niente più scienziati, quantomeno scienziati della politica. Si può attingere a forme di sapere mutuate da chi ha esperienza di quel segmento di vita associata particolarmente patologico e segnato dalla ricorsività della guerra che sono le relazioni internazionali. Discorso chiuso, dunque?

Nemmeno per sogno.

Ricerca di schemi

Quando postuliamo che la realtà (supponiamo: la guerra in Ucraina) non interroghi la teoria – e che la teoria, a sua volta, non interroghi profondamente la realtà, nella fisica contemporanea come nelle scienze sociali –, stiamo incatenandoci a un assunto magnificamente teorico, se non meta-teorico. Lo stesso vale quando affermiamo che la politica internazionale, diversamente da quanto accade nell’arena domestica, è condannata a ripetersi senza evoluzione: un mondo tragico segnato dall’inevitabilità della guerra e dell’impunità, dove – come scriveva Tucidide – il forte (la grande potenza) fa ciò che vuole, e il debole (il piccolo stato) soffre quello che deve. Stiamo insomma scivolando verso le teorie realiste, spesso criticate per la propria inveterata tendenza a naturalizzare l’esistente, con significativi problemi nello spiegare il cambiamento e implicazioni nel generare profezie che si auto-avverano.

Mi è capitato spesso, in questi mesi, di essere chiamato a parlare della guerra in Ucraina presso scuole, associazioni e sindacati. I miei stessi colleghi, nei giorni successivi all’invasione russa, mi hanno chiesto un aiuto alla comprensione, in forma di aggiornamenti analitici e interpretazioni. In quelle settimane penso di aver avuto modo di toccare con mano come un po’ ovunque si respirasse lo stesso disorientamento per «il ritorno della guerra in Europa». Ho osservato difficoltà a unire i puntini fra gli studenti universitari di oggi, che non hanno visto le guerre nei Balcani e non hanno nemmeno memoria diretta dell’11 settembre, ma che sono cresciuti a suon di domande televisive come «cosa c’è nella mente del jihadista?».

A frastornare non era l’assenza di fatti, dati, eventi, cronache, ma – al contrario – la difficoltà a dotarsi di uno schema di comprensione, o meglio a capire dove rivolgersi e cosa leggere, dato il forte rumore di fondo, per chiarire a sé stessi come si spiega cosa, e il verso in cui stiamo andando.

Persino quegli studenti a cui solitamente si legge scritto negli occhi “troppa teoria, vogliamo più cose pratiche”, si ponevano improvvisamente domande riflessive. Perché sarà anche vero che “i fatti trascinano”: ma cosa possiamo registrare come fatto, di situazione in situazione, in un mondo incessantemente percorso da segnali ed eventi, è tutt’altro che auto-evidente.

A volerla dire tutta, i giorni che hanno preceduto l’inizio della guerra hanno visto imperversare ogni tipo di teoria. Sui social media ci si fidava di chi sapeva leggere meglio il precipitare della crisi. Poi però la guerra è iniziata davvero, sono arrivati i morti, e nello sbigottimento generale quasi è calato il silenzio.

A pochi giorni dallo scoppio Michael MacFaul scriveva su Twitter che, arrivati a quel punto, si doveva smettere di considerare la crisi come test per diverse teorie astratte, e ripartire invece dal riconoscere l’esistenza di torto e ragione.

Teorie realiste

Sul fronte opposto, animato della spocchia di chi senza un filo di ironia ama ritrarsi vestito da Nicolò Machiavelli, c’era John Mearsheimer – punto di riferimento del realismo “di rito offensivo”: i più duri e puri, quelli che sostengono che nel sistema internazionale nessuno stato avrà mai abbastanza potere per sentirsi garantito, e dunque sarà incline a espandersi. Mearsheimer rivendicava di aver previsto un po’ tutto, e si sovrapponeva a Stephen Walt, sempre in casa realista, nel rintracciare le cause della crisi nell’arroganza americana. Non ci sarebbe stata alcuna crisi Russia-Ucraina, scriveva Walt su Foreign Affairs, se europei e americani non avessero peccato di hubris, wishful thinking e di idealismo liberale.

Nel 2003 Mearsheimer e Walt avevano condannato senza mezzi termini l’invasione americana dell’Iraq: oggi sostengono che l’invasione russa dell’Ucraina sia la risposta logica e prevedibile all’espansionismo occidentale, che rifiuta l’idea che l’Ucraina debba fare i conti con le volontà del Cremlino nel proprio vicinato. In parecchi a sinistra hanno sottoscritto questa visione delle cose, probabilmente animati dal desiderio di rifiutare le letture più smaccatamente atlantiste, di condannare gli Stati Uniti e distanziarsi da quelle semplificazioni propagandistiche che riducono il problema dell’ordine mondiale alla malvagità di Putin. Il più delle volte lo hanno fatto non in modo diretto, ma piuttosto prediligendo le lenti analitiche offerte da una forma distinta di pensiero realista attorno alla conduzione delle relazioni internazionali: la geopolitica.

Poco preoccupata della propria validazione teorica, quest’ultima lascia parecchie questioni senza risposta – come ho provato a evidenziare nel numero di Scenari del primo maggio scorso. Si tratta non solo di questioni ontologiche (ad esempio, la natura socialmente costruita dello spazio nei diversi ambiti di conoscenza scientifica, ben evidenziata nel lavoro di Doreen Massey), ma anche dell’idea che tale “dato” influenzi il corso d’azione e il suo esito, senza riuscire a chiarire in che grado questo avvenga, in quale misura determini, fino a coniare vere e proprie dottrine fondate sull’idea di “destino geopolitico”.

Si può forse sostenere che il pensiero geopolitico rappresenti un modo di dare chiavi di lettura per la politica estera, là dove le teorie realiste à la Mearsheimer si fermano a spiegare il contesto strutturale in cui le decisioni vengono prese, senza aiutarci molto a illuminarne la sostanza. In generale, sul versante positivista-realista si registra relativamente poca considerazione del valore performativo dei discorsi e delle ideologie.

Dal momento che lo spazio non è mai esperito in modo diretto, ma sempre attraverso categorie culturali e specifiche rappresentazioni (mappe che codificano, enfatizzano o minimizzano dati ai quali si è scelto di dare rilievo), questa scarsa considerazione include il modo stesso in cui il pensiero geopolitico nelle sue varianti produce la realtà che pretende di spiegare.

Come ha scritto Paul O’Shea, è abbastanza prevedibile che nazionalisti, conservatori e fascisti abbraccino la rappresentazione del mondo tipica del realismo come teatro di infinita competizione nazionalista. Più complesso è capire come talvolta a sinistra si sottoscriva una teoria che neghi la possibilità di progresso umano e ha come termine ultimo di riferimento non l’internazionalismo ma la nazione. Ancora più difficile è capire come l’indulgenza verso la logica di potenza possa non generare fondamentali contraddizioni, a sinistra, quando si tratta, invece che di quello russo, del vicinato statunitense o turco.

In sostanza: quando la Russia invade e commette crimini di guerra, saremmo davanti a come il mondo funziona, con tanto di professione di realismo (sigillo social-scientifico). Quando però gli Stati Uniti rovesciano governi ostili e instaurano regimi fantoccio, è per malvagità e interesse, e va combattuto.

Tra realismo e atlantismo

L’argomento realista di Mearsheimer è peraltro minato da contraddizioni. Fra le altre, è del tutto nelle premesse della visione realista che una Russia in lenta fase di ripresa nel tentare di ristabilire il proprio status di potenza cerchi, in modo indipendente dalle azioni americane, di asserire un ruolo di egemone nel suo vicinato. Alla luce di ciò non è dunque chiaro il ruolo che avrebbero avuto le chimere liberali nel causare la crisi ucraina. I realisti si sono opposti alle invasioni americane del passato, insistendo come si sia trattato di decisioni prive di una ragione cogente radicata nella sicurezza nazionale, ovvero distorte da lenti ideologiche (si pensi all’insistenza dei neocon su regime change). Ma quando si tratta di applicare il medesimo metro per spiegare le scelte della Russia, come possono spiegare un’invasione del genere in termini di stretta difesa della sicurezza nazionale, senza ideologia?

Nonostante i suoi fragorosi fallimenti predittivi (la fine della Guerra fredda) facciano ormai parte del canone dello studio delle relazioni internazionali – al pari del fallimento dell’interdipendenza economica nell’impedire la Prima guerra mondiale o dell’idealismo nell’impedire la Seconda – il realismo viene dunque accolto, o recepito sotto forma del suo succedaneo teoricamente proteiforme, la geopolitica, come strumento per navigare la realtà della guerra di oggi, tenendosi lontano da incrostazioni propagandistiche o – Dio ce ne scampi – intellettualismo elitista.

Non potremmo, qui, trovarci più lontani da uno schema di lettura ispirato alle teorie liberali o liberal-istituzionali. Il fatto è che nello schema realista di Measheimer e Walt la possibilità di agire è di fatto negata a chiunque che non siano gli Stati Uniti, in quanto lo stato più potente. Tutti gli altri, Putin per primo, finiscono per essere stilizzati come attori che si adattano, mentre gli Usa sono l’attore che sbaglia.

Gli atlantisti, in massima parte di ispirazione liberale, sostengono al contrario che tutto sprigioni da una scelta criminale di Putin preparata per anni. Sottolineano come le democrazie, chiamate a dar prova di sé, abbiano saputo mostrarsi unite nell’adozione di sanzioni contro Mosca, allineandosi sulle due sponde dell’Atlantico, e lo abbiano fatto contro il persistere di vistose asimmetrie di interesse, a partire dalla dipendenza da idrocarburi. La rapidità della risposta dell’Unione europea, la disponibilità tedesca a rivedere la propria posizione sul Nord Stream 2 e riconsiderare la propria cultura strategica (spesa per la difesa), sono elementi che rafforzano l’idea che le istituzioni internazionali contino, e anzi possano fare la differenza.

   continua alle pagine 12 e 13

 

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