A ogni picco di sbarchi che dalla Tunisia arriva in Italia si ripete sempre lo stesso copione, cambiano soltanto gli interpreti. Nel 2020 furono i ministri Luigi Di Maio e Luciana Lamorgese a recarsi a Tunisi con i commissari europei Ylva Johansson e Olivér Várhelyi. A fine aprile sarà invece il turno del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Con lui ci sarà il suo omologo francese, Gerald Darmanin, e, ancora una volta, la commissaria Johansson.

L’obiettivo è lo stesso: finanziare il governo nordafricano in cambio di un maggiore controllo alle frontiere per arginare le partenze. Ma anche una disponibilità totale ad accettare i rimpatri dei tunisini, che una volta giunti in Italia vengono espulsi con procedure rapide e sommarie. Domanda e offerta si incrociano: a Tunisi servono disperatamente i finanziamenti dell’Unione europea per evitare il tracollo finanziario. A Bruxelles serve una guardia costiera tunisina addestrata, potente e in grado di intercettare le imbarcazioni che salpano verso l’Europa. Ma questa logica non tiene conto delle violazioni dei diritti umani per mano della polizia di frontiera tunisina.

I finanziamenti

Dopo un fine settimana in cui ci sono state almeno 29 vittime a largo delle coste tunisine, si è recato a Tunisi il commissario europeo per gli Affari economici Paolo Gentiloni. Il fine della visita è stato anticipato dallo stesso Gentiloni a Politico: «L’Unione europea ha bisogno di una Tunisia stabile e prospera, motivo per cui siamo pronti a prendere in considerazione un’ulteriore assistenza macrofinanziaria se le condizioni necessarie saranno soddisfatte».

A Tunisi Gentiloni ha incontrato il presidente Saied, oltre al ministro degli Esteri, il ministro dell’Economia e il governatore della Banca centrale. Non è ancora nota la cifra dei finanziamenti che Bruxelles intende girare alla Tunisia, ma il governo italiano punta a un sostegno più ampio.

E spinge, tramite il ministro degli Esteri Antonio Tajani, a sbloccare il prestito da 1,9 miliardi di dollari promesso dal Fondo monetario internazionale verso Tunisi. Questi fondi sono stati sospesi a causa della via autoritaria intrapresa dal presidente della Repubblica Kais Saied. Ciononostante il governo di Giorgia Meloni sostiene il leader tunisino e sposa la retorica propagandistica interna che, in nome del rischio islamizzazione del paese, giustifica le forti limitazioni alla libertà di stampa e di espressione.

Per Tajani, infatti, «non possiamo abbandonare la Tunisia, altrimenti rischiamo di avere i Fratelli musulmani che rischiano di creare instabilità». Meglio, quindi, un regime che garantisca la stabilità attraverso un apparato securitario, violento e repressivo. La stabilità della Tunisia per l’Italia è essenziale anche dal punto di vista energetico. Il gas che ,attraverso il gasdotto Transmed, parte dall’Algeria e arriva in Italia passa proprio per la Tunisia.

Questione subsahariana

Lo scorso 21 febbraio Saied si è reso protagonista di un attacco razzista e discriminatorio contro la comunità subsahariana presente nel paese, che conta oltre 20mila unità.

«Esiste un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia – ha detto il presidente tunisino – La loro presenza (di cittadini subsahariani, ndr) è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili. È il momento di mettere la parola fine a tutto questo».

Decine di migranti subsahariani hanno poi denunciato molestie, abusi e pestaggi. Ora, per loro, né i paesi di origine né la Tunisia sono sicuri e non resta che partire verso l’Europa alla prima occasione utile.

A chi stiamo dando i soldi

Dopo la rivoluzione dei gelsomini del 2011, che ha portato alla destituzione del regime di Ben Ali, la Tunisia ha attraversato una complicata fase di transizione politica che ha provato a chiudere i conti con gli anni della dittatura. 

Diversi governi si sono succeduti negli anni ma non sono riusciti a superare lo stallo politico e a portare il paese verso il completamento della transizione.

L’immobilismo politico si è trasformato in un regime autoritario nel luglio del 2021 quando il presidente Kais Saied ha deciso di congelare il parlamento e di destituire alcuni membri del governo. 

La mossa è stata definita da analisti e commentatori come un «un colpo costituzionale» perché Saied ha giustificato la sua presa di potere tramite un’interpretazione forzata della costituzione tunisina. Nei mesi seguenti il parlamento è stato definitivamente sciolto, così come il Consiglio superiore della magistratura. Una volta azzerati di fatto i poteri esecutivi, legislativi e giudiziari Saied ha governato per un anno e mezzo attraverso decreti presidenziali. 

Ma la deriva autoritaria è culminata soltanto nell’estate del 2022 con l’approvazione – avvenuta tramite un referendum al quale ha votato soltanto il 30 per cento dei cittadini – della nuova costituzione voluta da Saied e che ha accentrato su di sé un potere senza precedenti. 

Le riforme approvate limitano fortemente il ruolo dei partiti e del parlamento e hanno contribuito a creare un clima che ha portato a rabbia e rassegnazione tra la popolazione esplicitato alle scorse elezioni legislative dove ha votato mento del 10 per cento degli elettori. 

Allo stato politico disastroso si somma la crisi economica e finanziaria acuita dalla pandemia prima e dalla guerra in Ucraina poi. La disoccupazione giovanile tocca quasi il 40 per cento, la crescita del paese è minima con un divario sempre più ampio tra chi vive nell’entroterra e chi nelle coste del paese. Elementi che spingono migliaia di giovani ad attraversare il Mediterraneo piuttosto che rimanere nel proprio paese senza prospettive economiche e democratiche.

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