Il primo significato del Leaders Summit on Climate convocato da Joe Biden per ieri e oggi in occasione dell’Earth Day era celebrare il ritorno degli Stati Uniti sul clima e quel ritorno è stato effettivamente celebrato. Tutti i 40 leader invitati, compresi Xi Jinping e Vladimir Putin, hanno partecipato all’incontro virtuale, fino a pochi giorni fa non era scontato ed è stato decisivo il lavoro dietro le quinte dell’inviato speciale per il clima John Kerry.

L’evento è stato trasmesso in diretta e quasi ogni intervento è iniziato con quello che somigliava a un rituale: il ringraziamento a Biden e all’America per essere tornati e aver ripreso il comando delle operazioni. Unica, notevole eccezione, un gelido Putin, che ha invece rivendicato come la Russia rispetti sempre gli impegni internazionali, compresi gli accordi di Kyoto e Parigi, proprio quelli dai quali, per motivi e in contesti diversi, gli Usa invece si erano sfilati.

Il ritorno dell’America

Gli Stati Uniti però ora sono tornati, sia nell’accordo di Parigi che alla guida della sfida globale sul clima, e non si sono presentati a mani vuote. Come previsto, Biden ha usato il «suo» vertice per dare l’esempio e annunciare il nuovo impegno americano nel taglio delle emissioni di gas serra entro la fine del decennio, che sarà tra il 50 per cento e il 52 per cento. Il dimezzamento è un salto quantico rispetto al livello degli impegni negli anni di Barack Obama (ma erano altri tempi con altre prospettive) e una cancellazione del vuoto sofferto nell’amministrazione Trump. Il 2030 deve essere il nostro orizzonte globale, «il decennio decisivo», nel quale questa sfida si vince o si perde. Lo ha detto Biden, nel suo breve discorso introduttivo da padrone di casa, lo hanno ribadito i leader più vicini a lui.

Non è secondario: la deriva della diplomazia climatica negli ultimi mesi sembrava portare principalmente a impegni lontani, al 2050 o 2060.

Lo stesso Biden ha promesso la neutralità climatica americana entro il 2050 ma ha ribadito che lo sguardo deve rimanere sulla fine del decennio. «Make it or break it», ha detto la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Come a dire: ci stiamo giocando tutto ora. «Il 2030 è il nuovo 2050», ha detto Macron.

La voce delle vittime

La conversazione globale sul clima può essere fredda e tecnica – numeri, percentuali, fonti di emissioni – oppure un cupo elenco di catastrofi presenti e future. Biden ha lasciato questo compito agli altri partecipanti e in questo senso è stato simbolicamente forte l’intervento di David Kabua, presidente delle Isole Marshall, Oceano pacifico, in rappresentanza dei paesi più colpiti dalla crisi: «Viviamo appena un metro sopra il livello del mare. Abbiamo sempre navigato l’oceano, ma oggi stiamo navigando la tempesta del cambiamento climatico».

Da mesi invece Joe Biden ha scelto invece una terza via: un sano e pragmatico ottimismo americano. «Quando la gente mi parla di clima, io penso sempre: lavoro», ha detto al vertice. È lo spirito dell’American Jobs Plan presentato qualche settimana fa a Pittsburgh, un piano ambientale sotto forma di interventi alle infrastrutture e creazione di occupazione. È una strada retorica, ma anche di sostanza politica.

«Nella nostra risposta alla crisi climatica ci sono enormi opportunità da prendere», ha ribadito ai leader collegati per ascoltarlo. «Io penso a migliaia di operai che stendono chilometri di cavi per una rete energetica pulita, che lavorano nell’idrogeno verde, negli impianti di cattura della CO2, nella produzione di auto elettriche».

Al di là degli impegni presi e del dialogo attivato, l’incontro serviva a Biden per presentare al mondo il suo manifesto per la transizione ecologica come grande promessa di prosperità. Biden ha voluto anche ribadire che l’infrastruttura democratica americana è con lui, che non ci saranno più passi indietro.

«Aziende, corporation, lavoratori, città, stati federali sono nella partita». C’era da restituire un valore al peso della parola data dagli americani, per rispondere a obiezioni e retro-pensieri come quelli suggeriti da Putin. La ricostruzione della credibilità è se non altro iniziata.

Il clima è una sfida a parte

C’era un altro significato per questo summit: dimostrare che la lotta ai cambiamenti climatici si può isolare da ogni altra tensione, che si possono riunire leader in disaccordo su tutto nello stesso contenitore diplomatico, anche in un clima da guerra fredda multilaterale, per lavorare a obiettivi ambientali ed energetici comuni.

«Nessuna nazione può risolvere la crisi esistenziale dei nostri tempi da sola, siamo tutti chiamati a fare la nostra parte», ha detto il presidente americano a Xi Jinping, Putin, Bolsonaro, Erdogan, al re saudita Salman. L’esistenza stessa di un summit come questo, organizzato nell’arco di mesi quando di solito sarebbero necessari anni, è una risposta in questa direzione, anche in vista dell’evento decisivo del 2021 e del decennio, la COP26 di Glasgow a novembre.

La cooperazione tra avversari geopolitici per il clima è possibile. Non certa, scontata o facile, ma possibile. Sono arrivati i nuovi impegni a medio termine dal Canada e dal Giappone, è stata votata (di gran corsa) la legge europea sul clima, c’è il nuovo impegno del Regno Unito di ridurre le emissioni del 78 per cento entro il 2035. Non sono arrivati nuovi impegni da Cina o India, ma, nonostante il mondo sia ancora preso dalla pandemia, il vertice è stato un attivatore di fermento sul clima e la conferma che la leadership americana ha ancora un peso. Quando un presidente degli Stati Uniti chiama, c’è ancora una grande parte del mondo che risponde presente. Era una scommessa, anche rischiosa, e Biden per ora l’ha vinta. «Affrontare questa crisi è un imperativo morale ed economico», ha detto il presidente. «Non abbiamo scelta, dobbiamo riuscirci».

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