Nel prossimo vertice i capi di Stato della Lega Araba voteranno la riammissione della Siria su impulso dell’Arabia Saudita. Damasco era sospesa dal 2011 come reazione alla brutale repressione delle manifestazioni contro il governo di Bashar al Assad.

Da allora tutto è cambiato: a dimostrazione della trasformazione geopolitica avvenuta in medioriente, sono gli stessi governi che l’avevano espulsa a volere oggi la riammissione della Siria. Il gruppo filo-occidentale dei “friends of Syria” si è dissolto da tempo: prima la Turchia se ne è allontanata preferendo negoziare direttamente con i sostenitori di Damasco, Russia e Iran.

Poi gli stessi occidentali se ne sono via via disinteressati e alla fine anche l’opposizione siriana si è dimostrata debole e divisa al suo interno, inquinata dal jihadismo. A Ginevra i colloqui Onu tra i protagonisti si sono arenati davanti alla sfida di una nuova costituzione. Sul terreno ciò si è trasformato in una vittoria del regime con l’unica eccezione della sacca di Idlib, peraltro garantita da Ankara.

Le posizioni in campo

Resta aperto il tema curdo del Rojava, tenuto in piedi da un’esile presenza americana, non si sa quanto duratura. Dopo dodici anni di guerra, la situazione dei siriani è tragica con il 90 per cento che vive al di sotto della soglia di povertà. La metà della popolazione anteguerra è all’estero o sfollata interna. Malgrado il conflitto e le sanzioni occidentali, il regime ha dimostrato una forte capacità di resistenza grazie ai suoi alleati Hezbollah, Iran e Russia.

Considerato tale scenario, gli ex nemici arabi di Assad hanno colto l’occasione del terremoto di febbraio scorso per accelerare gli sforzi di normalizzazione. In teoria un ritorno in seno alla Lega Araba impegnerebbe la Siria a consentire il dialogo politico presso le Nazioni unite e il ritorno dei profughi. In pratica tutti sono consapevoli che il regime si oppone ad entrambi i processi, se non alle sue condizioni.

Qatar, Kuwait ed Egitto sono i più restii a riallacciare con Damasco ma non hanno la forza per opporsi. La riammissione siriana è in aperta sfida con le posizioni dell’amministrazione Biden. Mentre Parigi sembra ancora vicina alle posizioni americane, il resto dell’Europa è più incerta.

La guerra in Ucraina ha distolto l’attenzione da ciò che accade in Siria e sono numerosi gli Stati che desiderano chiudere tale dossier. L’iniziativa diplomatica saudita inaugura una nuova fase in medioriente. Dopo la riconciliazione in atto con l’Iran e l’impegno nel tentativo di cessate il fuoco in Sudan, la diplomazia di Riad mette a segno un altro colpo con l’obiettivo di rendere il paese una potenza politico-militare con cui fare i conti.

Il cambio di direzione sulla Siria è una conseguenza dei colloqui in corso con Teheran: Riad ha compreso che per limitare l’influenza iraniana non serve la guerra (come si dimostra in Yemen) ma è più produttivo utilizzare la forza economica e il dialogo, anche a costo di rinunciare agli accordi di Abramo con Israele.

La ricostruzione in Siria potrà essere fatta con i finanziamenti dei paesi del Golfo che serviranno a risolvere la critica situazione degli oltre 5,5 milioni di rifugiati che vivono nei paesi vicini: in Turchia (3,6 milioni), Giordania (1,8 milioni), Libano (1,5 milioni) e Iraq (260.000).

Tutti vogliono che i profughi tornino a casa ma alle giuste condizioni, che ancora non si vedono. Il governo siriano li considera in gran parte nemici dello stato per il loro ruolo – o quello dei loro familiari – nella rivolta siriana o perché vicini ai gruppi di opposizione. Su tale delicato tema la trattativa in seno alla Lega sarà lunga e complessa.

Il captagon

Ma c’è un altro tema che sta a cuore all’Arabia Saudita e agli altri stati arabi vicini: il flagello della droga a basso costo “captagon” (un derivato molecolare di metamfetamina e caffeina) che viene prodotta nella Siria meridionale ed è diventato un vero flagello per tutta la regione.

Usato originariamente dai jihadisti e in particolare dall’Isis come stimolante nei combattimenti, la produzione di captagon è un frutto amaro della guerra siriana. Non passa settimana che le autorità saudite non sequestrino importanti carichi di queste terribili pillole, senza riuscire ad arrestarne il flusso. Mentre in occidente non se ne parla, pare che Damasco stia guadagnando miliardi di dollari da tale business della droga.

Il captagon costa poco e si è diffuso rapidamente in medioriente anche grazie alle difficoltà indotte dalla pandemia di Covid. Tutti chiedono ora a Assad di reprimere tale redditizio commercio, ben inteso in cambio di nuovi aiuti. Com’è noto, una cosa è facilitare un commercio illegale basato su reti criminali globali, altra è cercare di fermarlo.

La Siria non ha urgente bisogno di un ritorno nella Lega Araba ma prenderà tale svolta come una vittoria politica e detterà le sue condizioni. Ciò che si spera a Damasco è la graduale revoca delle sanzioni occidentali: insistendo su questo la Siria metterà i partner arabi in una posizione scomoda con Washington.

Se il regime sanzionatorio permane, chi vuole svolgere lavori di ricostruzione in Siria dovrà aggirare le sanzioni e ciò mette in particolare Riad in una situazione ostica soprattutto dal punto di vista finanziario. Qualsiasi profitto realizzato in Siria sarebbe considerato off limits dal sistema globale controllato dagli Stati Uniti, provocando il rischio di multe salatissime alle banche o agli operatori finanziari del Golfo. 

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