Uno degli effetti del conflitto tra Hamas e Israele è quello di aver fatto passare in sordina le elezioni presidenziali egiziane. Erano state annunciate pochi giorni prima del 7 ottobre scorso, e, mentre i servizi di sicurezza del Cairo hanno fatto in modo di ostacolare le candidature di chiunque abbia un minimo di consenso che possa far lontanamente impensierire il presidente al Sisi, l’Egitto ha raccolto i meriti delle trattative con il Qatar per la liberazione degli ostaggi israeliani imprigionati da Hamas.

E così, è passata in sordina anche la mancata candidatura di Ahmed el Tantawy, ex giornalista e parlamentare, personaggio tra i più agguerriti contro il generale egiziano. Da quando ha annunciato la sua candidatura la scorsa primavera, ha denunciato che membri del suo comitato elettorale e alcuni suoi collaboratori sono stati vittime di intimidazioni e arresti arbitrari. Il suo cellulare è stato anche hackerato con lo spyware Predator con il quale, come ha raccontato Domani in una lunga inchiesta internazionale, è stato colpito il cellulare dello studente egiziano dell’università di Bologna Patrick Zaki. Il fronte dell’opposizione si presenta alle elezioni spaccato al suo interno, con candidati che chiedono il boicottaggio alle urne e altri contrari. La strada per il generale egiziano è sempre più libera davanti a lui. Il prossimo mandato scadrà nel 2030, ma può non essere l’ultimo, dato che con l’ultima riforma costituzionale sono stati eliminati i limiti di candidabilità.

L’alleato perfetto

Già da prima del 7 ottobre non c’erano dubbi su una vittoria schiacciante di al Sisi. Da quando è in carica, le sue elezioni sono sempre un plebiscito. Ma quest’ultimo mese ha garantito al presidente salito al potere nel 2013 un nuovo lustro di credibilità internazionale. Le mediazioni per gli ostaggi, l’apertura del valico di Rafah per far passare gli aiuti umanitari e per far evacuare i cittadini stranieri, il tentativo (anche se fallimentare) di organizzare una conferenza internazionale per tracciare un percorso politico di transizione una volta finita la guerra. Sono solo alcuni degli sforzi compiuti dalla diplomazia egiziana per blindare la sua posizione internazionale.

C’è anche chi spera che al Sisi decida di accettare i profughi palestinesi nel Sinai in cambio di una parcella economica. Aria fresca per le casse dello stato che sono in sofferenza da tempo. Benché per il presidente egiziano potrebbe essere un’opzione allettante, c’è da considerare che accettare i profughi palestinesi nel suo territorio significherebbe di fatto consegnare Gaza a Israele. Un gesto inaccettabile per i 110 milioni di egiziani, da sempre vicini alla causa palestinese. Ma sul tavolo c’è anche l’intenzione dell’Ue di dare vita a un «partenariato più forte contro il traffico di esseri umani». Una sorta di accordo simile a quello firmato in Tunisia.

La trattativa con l’Fmi

Le elezioni erano previste per la primavera del 2024, ma sono state anticipate a fine 2023 per un motivo preciso. Sono in corso le trattative con il Fondo monetario internazionale e le parti potrebbero arrivare a un accordo nel prossimo primo trimestre. Sul piatto ci sono tre miliardi di dollari, in cambio il Cairo è destinato a varare riforme restrittive nei confronti delle fasce più deboli della popolazione. Non è semplice dato che la situazione economica del paese è ancora fragile. L’inflazione è quasi al 40 per cento e circa il 30 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Un numero altissimo, visti i quasi 110 milioni di abitanti.

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