La condanna dell’Ue per la strage avvenuta a Gaza City, dove 112 palestinesi sono morti e altri 760 sono rimasti feriti, quando una folla affamata che da mesi mangia mangime per animali per sopravvivere si è precipitata nel caos verso un convoglio di aiuti alimentari nella notte e senza luci elettriche, rappresenta il superamento di una linea rossa in un conflitto che ritenevamo avesse già raggiunto l’apice delle tragedie umanitarie. Vero è che le versioni delle parti in lotta divergono e nessun testimone neutrale era presente: Hamas sostiene che l’esercito israeliano ha aperto il fuoco sulle persone in cerca di farina, mentre Israele riconosce un «tiro limitato» da parte dei soldati che si sono sentiti «minacciati», e ha parlato di ressa della folla.

Resta il fatto, come ha detto Josep Borrell, l’Alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri, che «privare le persone degli aiuti umanitari costituisce una grave violazione» del diritto umanitario internazionale. «Deve essere garantito l’accesso umanitario senza ostacoli a Gaza».

Cosa che il governo Netanyahu non sta facendo a sufficienza, perché già il 25 gennaio c’era stato un episodio simile con i militari israeliani che avevano aperto il fuoco durante una distribuzione di aiuti perché si erano sentiti in pericolo con un bilancio di 20 morti e cinque giorni fa, nella stessa area, si è riproposta la stessa situazione.

Il fatto è che nessuno garantisce l’ordine pubblico a Gaza. Soprattutto il governo Netanyahu non ha chiarito nei dettagli quale sia la sua visione politica del dopoguerra.

Di certo c’è che in questo vuoto politico, giovedì un gruppo di coloni ha sfondato il checkpoint militare ed è entrato nella Striscia anche se solo per qualche centinaio di metri per rivendicare il diritto di rioccupare le terre che il premier Ariel Sharon fece sgomberare. Paradossalmente, l’ultimo uomo politico a tentare di muovere le acque è stato nel 2005 proprio l’ex premier Sharon, uomo della destra, che si era ritirato da Gaza e stava per farlo anche dalla Cisgiordania, ma poi è stato colpito da un ictus e tutto quel processo politico si è fermato.

Quello che sta accadendo nella conduzione della guerra senza strategia a Gaza, secondo Thomas Friedman, editorialista del New York Times, è «l’erosione sempre più rapida della posizione di Israele tra le nazioni amiche – un livello di accettazione e legittimità che è stato faticosamente costruito nel corso di decenni».

Inoltre, secondo Friedman il presidente Biden rischia di essere risucchiato nel gorgo che la politica di Netanyahu sta provocando.

Friedman aveva parlato prima della “strage della farina” a Gaza. Dunque la domanda che ci poniamo dall’inizio di questa riflessione: può questo tragico episodio cambiare la narrazione e le posizioni in campo finora sclerotizzate? Oppure tra pochi giorni tutto sarà presto dimenticato?

Va osservato che anche i più vicini a Israele di fronte a queste situazioni ancora confuse, ma tragiche, vacillano. Una cosa è certa: la politica bellicista del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, da venti anni al potere, sta pericolosamente spingendo le democrazie occidentali (che hanno ovviamente opinioni pubbliche a cui rispondere) verso posizioni sempre più polarizzate e dove dare un sostegno quasi incondizionato, come avvenuto finora, all’unica democrazia dell’area, cioè Israele, sarà sempre più complicato.

Ne è un esempio la posizione di Pina Picierno, vicepresidente del parlamento europeo per il Partito democratico che su X ha scritto: «Le immagini che arrivano da Gaza lasciano inorriditi. La nuova strage che colpisce i civili palestinesi è inaccettabile. Si giunga presto ad un cessate il fuoco umanitario come richiesto dal Parlamento europeo nelle scorse settimane».

Un segnale di equilibrio da non sottovalutare perché il governo Netanyahu rischia di passare la linea rossa che una democrazia liberale, anche se in guerra, dopo essere stata attaccata, proditoriamente e alle spalle, non può mai superare nel rispetto dei diritti umani.

© Riproduzione riservata