Lucio Caracciolo ha scritto su Israele e la sua crisi, a titolo di presentazione del nuovo numero di Limes in uscita, Israele contro Israele, un articolo un po’ inquietante (La Stampa, 15 aprile). Inquietante, certamente, perché prospetta tre soluzioni a questa crisi, di cui una appare improbabile, e le altre due cariche di violenza mortale.

Improbabile appare allo stato un accordo di compromesso fra i sostenitori del governo delle destre estreme e i suoi oppositori, che hanno riempito le piazze nelle proteste di queste ultime settimane. Ma le altre due sarebbero o un colpo di stato o la fine dello stato per consunzione. E tutto questo perché? Perché Israele non sa “chi” è, o cos’è. Perché non si è definito. «Se mondo ebraico, rabbinato e società israeliana tuttora disputano su chi sia ebreo, come pretendere di definire l’identità dello stato?»

Problema di identità?

Prima domanda: ma in che senso non si è definita, questa identità? Lo stesso Caracciolo cita la legge dello Stato-nazione, approvata dalla Knesset nel 2018. Presentando il disegno di legge, Amir Ohana (Likud), speaker alla Knesset, affermò: «Questa è la legge delle leggi. È la legge più importante nella storia dello stato di Israele, e dice che ognuno gode dei diritti umani, ma i diritti nazionali in Israele appartengono soltanto al popolo ebraico. Questo è il principio fondante sulla base del quale lo stato fu stabilito».

Il ministro Yariv Levin (Likud) lo chiamò «l’emblema stesso del sionismo». Avrebbe portato ordine «chiarendo quello che era sottinteso» ed esplicitando la natura di Israele: «Un paese diverso da ogni altro, cioè lo stato-nazione del popolo ebraico». Per questa ragione nel 2019 Benjamin Netanyahu poteva dichiarare che «lo stato di Israele non è lo stato di tutti i suoi cittadini ma del popolo ebraico esclusivamente».

La Corte suprema non ebbe alcuna obiezione di incostituzionalità perlomeno ideale. Seconda domanda: dunque in che senso è – come Caracciolo afferma – sull’identità di Israele che porta il conflitto fra il governo attuale (che vuole limitare i poteri della Corte) e i cittadini (che si oppongono)? Del resto, cosa siano questi diritti nazionali non è un segreto per nessuno: nella città di Gerusalemme, ad esempio, la popolazione ebraica non deve mai scendere sotto il 60 per cento della popolazione.

Molte disposizioni ne seguono, come l’impossibilità di ritornare, per un “arabo” – normalmente un palestinese – che si trovasse costretto a trasferirsi fuori Gerusalemme; come l’impossibilità di ottenere il permesso di soggiorno a Gerusalemme per quello dei coniugi che non vi abitasse già; per non parlare dell’inaccessibilità, così per un arabo israeliano come per qualunque altro non-ebreo dentro o fuori degli incertissimi confini di Israele, delle terre e dei permessi di costruire (che vengono invece concessi ad abundantiam ai coloni ebrei per i loro insediamenti nei Territori).

Due categorie di cittadini

Più in generale, la separazione fra diritti nazionali e diritti umani comporta ovviamente due categorie di cittadinanza. La cittadinanza riservata ai soli ebrei conferisce un accesso preferenziale alle risorse materiali dello stato come anche ai sevizi sociali e di welfare, con relativa discriminazione dei cittadini non ebrei, in particolare per quanto concerne – come sempre – l’accesso ai permessi di edificare, all’abitazione, alla terra e all’acqua. Anche entro i confini (ripeto, assai vaghi) di Israele.

Per questo l’aspetto più curioso dell’articolo è che l’intero ragionamento di Caracciolo non faccia menzione della questione palestinese se non come la «quarta tribù», con il nome generico di «arabi», accanto alle tre menzionate sopra (e a una quinta ma piccola, quella dei drusi).

Come se la spaventosa spirale delle violenze in atto nulla avesse a che vedere con l’espansione sempre più aggressiva degli insediamenti coloniali, con relativo corredo di muri, appropriazione illegale di terra e di acqua, riduzione sempre maggiore della capacità di sostentamento della popolazione palestinese, dello spazio a sua disposizione, della sua mobilità – e naturalmente in barba a innumerevoli risoluzioni dell’Onu e delle sue agenzie, ultimi in ordine di tempo gli sconcertanti rapporti su Amnesty international e della relatrice speciale delle Nazioni unite, Francesca Albanese.

Secondo l’ultimo libro di Ilan Pappè, pubblicato in Italia da Fazi nel 2022, La prigione più grande del mondo non è più semplicemente Gaza, è l’insieme dei Territori occupati. Si può discuterne. Ma una cosa, a me sembra, non si può fare: prolungare anche nelle riflessioni critiche quel sistema di invisibilità dell’altro che poteva non essere iscritto nel destino di un Israele diverso – perché la storia la fanno gli uomini, non le loro più o meno certe identità.

Un destino fatto di rimozione, barriere architettoniche, apartheid nell’organizzazione della viabilità – e indeterminate “detenzioni amministrative”, che letteralmente fanno sparire dalla circolazione per anni e senza processi quelli che danno più fastidio. Un destino che costituisce forse il fatto più tragico della storia moderna recente, per tutte le parti coinvolte.

Una disperata domanda di giustizia

Un’ultima domanda: è lecito dare dell’antisemita a chi ricorda questa tragedia e critica quell’aspetto del sionismo politico di cui la legge sullo Stato nazione sarebbe «l’emblema stesso» (qualunque cosa sia stato nei suoi mille altri aspetti il sionismo), e che che questa rimozione e questa violazione del diritto internazionale e dei diritti umani perpetua?

È vero, una implicazione del genere è proprio sostenuta dall’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance), a partire dal 2016: ma è stata fermamente contestata dalla Jerusalem Declaration on Antisemitism (Jda), che raccoglie voci di studiosi israeliani e del mondo intero.

E in effetti: sono antisemiti tanti uomini e donne di buona volontà, fuori e dentro Israele – organizzazioni come B’tselem, Breaking the Silence, Jewish Voice for Peace, articolisti di Haaretz e del Jerusalem Post (si veda il recente articolo di Gershom Baskin: Persecution of Palestinians is wrong and has to end), scrittori, saggisti? Non è proprio il dovere di difenderli, e di cercare una via di uscita degna e umana, che spinge sempre più persone – per fortuna – a informarsi e parlare di questa immensa tragedia? Ecco, dobbiamo intendere che proprio queste persone, che magari non hanno dottorati nei Jewish Studies o in geopolitica, vanno ad aumentare quell’antisemitismo che Caracciolo dice serpeggiare anche nei salotti del politicamente corretto? O non abbiamo capito bene noi?

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