La più enigmatica delle sette monarchie che compongono gli Emirati arabi uniti si chiama Ras al Khaimah (Rak), ma chi pensa di non averci mai avuto a che fare probabilmente si sbaglia. In ogni casa del pianeta, infatti, finiamo tutti per avere prima o poi un oggetto marchiato Rak, cioè con la sigla dell’emirato arricchita da corona a sei punte che simboleggia il legame con la famiglia reale al Qasimi. Niente petrolio, gas e risorse energetiche: Rak è il più grande produttore al mondo di ceramica. Ogni anno sforna 24 milioni di stoviglie, cinque milioni di sanitari e 123 milioni di metri quadrati di mattonelle con il proprio, pregiato nome.

mappa RAK

Un impero di ceramica

Il primo mistero di Ras al Khaimah è racchiuso quindi nell’ovvia domanda: ma come ha fatto un emirato molto più oscuro di Dubai e Abu Dhabi a diventare una potenza industriale di queste dimensioni, con una fabbrica da mezzo miliardo di fatturato, invece di accontentarsi di vivere di rendita? Il secondo mistero è chiuso in un’altra domanda, più inquietante: è vero che Rak, anche se fa parte degli Emirati che hanno nell’Iran il proprio nemico storico, fa l’occhiolino al paese degli ayatollah, da cui per altro dista solo di alcune bracciate di mare? E se è cosi, perché a Dubai e Abu Dhabi nessuno sembra preoccuparsene?

Risolviamo il primo mistero. La soluzione sta in un nome: Khater Massaad. Libanese cristiano maronita, passaporto svizzero e doppia laurea a Losanna, dal 2003 advisor economico ufficiale dell’allora erede al trono e oggi sceicco Saud al Qasimi, monsieur Massaad ha praticamente inventato Ras al Khaimah almeno dal punto di vista economico. A un certo punto era contemporaneamente presidente della Rak Airways, capo e fondatore della Rak Ceramics, ceo della Rak Investments Authority, presidente dell’ente turistico di Ras al Khaimah, così che Ras al Khaimah era un posto dove “non si muove foglia che Khater non voglia”. Ma la sua qualifica più importante era un’altra: geologo semplice, ma furbo.

Era stato lui, infatti, durante una gita in auto negli anni Novanta nelle spettacolari montagne di al Hajar al Gharbi, a scoprire che l’antico emirato da sempre guardiano dello stretto di Hormuz aveva una risorsa strategica quanto la sua geografia: immensi giacimenti di una roccia calcarea che frantumata a dovere può essere usata per produrre ceramica di alta qualità e grande bellezza. Il geologo svizzero prima aveva spiegato alla famiglia reale che il petrolio bianco era un grande business, poi aveva rilevato insieme allo sceicco una minuscola fabbrica di mattonelle e l’aveva trasformata in un colosso mondiale, noto per design, robustezza, affidabilità. Il successo della ceramica aveva attirato altri investimenti di ogni tipo, Massaad dice circa 10mila società. Lo sceicco a sua volta aveva trasformato Massaad in un ricchissimo socio-consigliere. Nel 2009 Massaad aveva addirittura portato a Ras al Khaimah la coppa America di vela, sponsorizzando il team Alinghi di Ernesto Bertarelli (tra svizzeri ci si intende).

Ma nel 2012 all’improvviso l’idillio era venuto meno. Massaad aveva abbandonato in fretta e furia Rak e gli sceicchi, rifugiandosi nel suo martoriato Libano da dove aveva ricominciato da capo, fondando aziende di ceramica in mezzo mondo per fare concorrenza alla sua ex creatura. Fine della storia? No, solo l’inizio. Nonostante il nome storico di questo territorio sia Stati della tregua (in omaggio alla tregua del 1820 tra la flotta inglese e i pirati che infestavano lo stretto di Hormuz) tra gli al Qasimi e l’ex geologo è scoppiata una guerra internazionale. All’improvviso su Massaad erano piovuti mandati d’arresto Interpol, richiesti da avvocati di mezzo mondo per conto di Ras al Khaimah.

A Riad, il geologo era addirittura finito nelle prigioni saudite (su richiesta di Abu Dhabi, che dell’Arabia Saudita è un forte alleato). Persino l’umile Bangladesh gli aveva sequestrato vari investimenti. L’accusa contenuta in ogni pezzo di carta: il governo di Ras al Khaimah avrebbe scoperto che durante il “regno” di Massaad molto denaro era stato fatto sparire e molti intrallazzi avevano portato all’arricchimento personale del geologo invece che di quello dell’emirato (e della sua famiglia reale).La spiegazione di Massaad, ovviamente, è diversa. «L’accanimento contro di me nasce dal fatto che so troppo. Usano ogni scusa pur di cercare di screditarmi, sono pronti ad eliminarmi anche fisicamente», dice.

L’insinuazione è che il sunnita Ras al Khaimah faccia il doppio gioco con l’Iran sciita, con il quale condivide lo stretto di Hormuz da cui passa il 40 per cento del petrolio mondiale. Un doppio gioco a prima vista improbabile, considerato che tra Ras al Khaimah e Iran esiste sin dal 1971 una disputa territoriale non di poco conto per il controllo delle isole Tunb e Abu Musa e anche della leggendaria isola di Qeshm, uno dei luoghi indicati in passato come il Giardino dell’Eden. L’antica rivalità sul controllo dello stretto di Hormuz, quindi, sembra rendere il rapporto Iran-Ras al Khaimah tempestuoso di natura.

Altre storie

L’accusa di collaborazionismo, tuttavia, non è nuova: quasi vent’anni fa, quando a regnare c’era ancora l’anziano patriarca Saqr bin al Qasini, i due figli si erano contesi il titolo di principe ereditario a suon di golpe di palazzo, arresti domiciliari, persino rivolte di piazza (inedite negli Emirati) con sostenitori del perdente Khaled al Qasini che sparavano pistolettate nelle strade della capitale. Da allora l’esiliato Khaled sostiene che il fratello – oggi lo sceicco - è segretamente filo-iraniano. L’accusa non spiega perché il governo centrale di Abu Dhabi abbia sempre appoggiato lo sceicco potenziale serpe in seno invece del filo-americano e anti-iraniano Khaled.

L’ambiguità a cui Massaad allude è aiutata da diversi segnali di collaborazione tra il piccolo emirato e la grande potenza sciita: Rak Ceramics ha annunciato di voler aumentare la produzione in Iran e ha acquisito una fabbrica di ceramiche, poi Rak ha appena annunciato un traghetto superveloce con l’Iran che rende gli spostamenti tra i due paesi molto più facili. Gli americani sospettano che gli ayatollah abbiano una certa influenza su Ras al Khaimah, persino che ne controllino di fatto le dogane e i porti. La giustizia Usa ha accusato l’emirato di aver facilitato il riciclaggio di denaro iraniano. Vari studiosi dell’estremismo islamico hanno suonato l’allarme sui predicatori delle moschee di Ras al Khaimah, accusandoli di essere finanziati da Teheran. Poi c’è la strana vicenda del magnate iraniano-americano Farhad Azima, condannato da un tribunale inglese a pagare oltre quattro milioni di dollari di danni a Ras al Khamaih.

Azima, che da sempre ha strani contatti con la Cia e con società del settore difesa collegate a ex funzionari Cia, ha risposto che dimostrerà che la famiglia reale di Rak «lavora come un cartello sudamericano». Per non dimenticare che il celebre mercante d’armi Victor Bout aveva proprio nell’aeroporto di Ras al Khaimah una flotta di aerei intestati a linee aeree africane che collegavano i depositi militari dell’ex Unione sovietica a vari aeroporti africani. Il tutto avveniva senza troppi controlli da parte delle normalmente rigorose dogane emiratine.

La geografia

Storie poco trasparenti, ma in compenso a parlar chiaro è la geografia. Ed è una geografia straordinaria. La catena montuosa delle Hajar, alta quasi 2.000 metri si erge dall’arido deserto e domina il mare del Golfo arabico. Questa è la “miniera” della ceramica.

Una lunga strada larga tre corsie, perfettamente asfaltata, si snoda fino a quasi 1.600 metri di altitudine, poi prosegue stretta e ripida come strada privata che raggiunge un paradiso naturale, un’oasi di piante lussureggianti, agrumeti, roseti e distese di piante officinali provenienti da tutto il mondo: è la residenza privata dello sceicco. Numerose fortificazioni raccontano di un passato fatto di protezione dei confini da parte degli invasori e il Dhayah fort, il simbolo di Ras al Khaimah, è uno degli esempi meglio conservati. Il villaggio abbandonato di Jazirat al Hamra racconta di un passato recente in cui le tribù marinare pescavano perle e pesci. Il vero rompicapo è in mare, nello stretto di Hormuz che chiude il Golfo persico.

Qui, tra isole, terminali petroliferi e gasdotti, la marina iraniana e quella Usa si sono scontrate più volte. Negli ultimi giorni un numero imprecisato di petroliere sono state attaccate da pirati, che Stati Uniti e Gran Bretagna sospettano siano aiutati dall’Iran o siano addirittura militari iraniani. Per non dimenticare l’abbattimento forse per tragico errore del volo Iran Air 655 da parte degli americani nel luglio 1988. L’Iran lo ha chiamato in passato “la nostra vena giugulare”, nel senso che in caso di conflitto con l’occidente Teheran può facilmente strozzare il nemico. Per molti è il collo di bottiglia più stretto al mondo.

L’Oman – attraverso la misteriosa e bellissima penisola di Musundam, da cui è separato geograficamente e che è un’enclave omanita negli Emirati arabi uniti – ne controlla il lato sud. Ras al Khaimah, come l’Oman, sa che in caso di conflitto sarà tra i pochi a poter parlare sia con Teheran sia con Washington o con gli alleati regionali. Forse agli emiratini fa comodo avere una porta aperta con il mondo sciita. In fondo, si tratta sempre degli stati della Tregua, dove pirateria contrabbando marciano a pari passo con la diplomazia.

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