Lo spiraglio di luce per il Sudan, ormai in guerra da 5 mesi e mezzo, è rappresentato dalla dichiarazione rilasciata alla Bbc lo scorso 22 settembre dal comandante delle Forze armate sudanesi (Saf) Abdel Fattah al Burhan, con cui si dice pronto a negoziare con le Rapid Support Forces (Rsf) a condizione che si ritirino dalle aree residenziali. Si attende la risposta di Mohamed Hamdan Dagalo, capo delle Rsf, che nel frattempo tentano di sfondare anche a Nyala e continuano a ingaggiare violenti scontri con l’esercito a Khartoum, Bahri e Omdurman.

La situazione nel paese è drammatica. Alle decine di migliaia di morti si aggiunge un numero enorme di feriti, di donne violentate e di sfollati interni. Tantissimi, poi, sono i profughi in fuga dal Sudan che vanno a gravare sulle situazioni già precarie dei paesi limitrofi: oltre 1,1 milione di persone di cui 480mila solo in Ciad e 280mila in Sud Sudan.

Come in tutti i conflitti, il prezzo più alto lo pagano i bambini che oltre a traumi sono esposti a rischi mortali. Secondo l’Unhcr in nove campi profughi dello stato del Nilo Bianco sono morti oltre 1200 piccoli sotto i cinque anni tra il 15 maggio e il 14 settembre per morbillo e malnutrizione. Un rapporto dell’ African Centre for Justice and Peace, inoltre, documenta il reclutamento di bambini soldato da parte dell'Rsf. Il resto vive e convive con il terrore: vede armi di ogni foggia o bombe cadere dentro casa e uccidere familiari, si abitua a schivare le granate, assiste a violenze e torture quotidianamente. Le scuole sono chiuse in quasi tutto il paese, le occasioni di incontro, crescita e svago sono molto limitate. Gli unici luoghi sicuri per i più piccoli sono rappresentati da spazi allestiti da movimenti auto-organizzati come le Emergency Response Room (Err, comitati locali su base volontaria, ndr) il cui ramo femminile è costituito dalla Women Response Room (Wrr).

Tra le unità più attive, c’è quella coordinata da Duaa Tariq, attivista, artista e fondatrice del gruppo artistico di coscienza sociale ColorSudan. Assieme a un numero di volontari, Duaa, appena divenuta mamma, gestisce un centro per bambini a West Jireif, un’area di Khartoum. Per quattro ore al giorno, si fanno sessioni di pittura, lettura, si gioca e si affronta, attraverso il sostegno di psicologi, il dramma della guerra. In esclusiva per Domani, Duaa ha raccolto e tradotto le testimonianze di alcuni bambini in età compresa tra i 4 e i 9 anni. Ne riportiamo alcune.

Prossimità con le armi

Uno dei più grossi problemi con cui i bambini devono fare i conti quotidianamente è il contatto con le armi. «Conosco tre tipi di armi – dice Baby, 4 anni - la granata, la pistola e l'aereo. Le Rsf lanciavano le granate su Airport Rd, e poi, tutto fuoco. Ho visto nuvole di proiettili, hanno sparato tutto il giorno. Prima, mentre venivamo qui, abbiamo visto tre macchine, portavano tante armi, ci hanno chiesto: "Dove state andando?". Abbiamo risposto "a scuola”». Manar 8 anni: «Il proiettile che è entrato in casa nostra ha fatto un buco nel muro, era un proiettile di pistola DshK, se non avesse colpito prima il pavimento mia sorella sarebbe morta. Ha colpito prima le mattonella e lei è rimasta solo ferita. Io capisco cosa sta succedendo dai suoni. Uno sembra un boom, l'altro è un tic tic [e poi esplode], e se uno di loro colpisce si sente una specie di zoooon. Una volta una granata ha colpito un edificio vicino a noi e sono morte alcune persone. Quella aveva il suono più forte, booooooom».

I bambini assistono regolarmente a scene di estrema violenza o sentono e vedono esplosioni o scontri armati, che lasciano segni indelebili nelle loro menti. «Una volta, mentre camminavo - Nadia 9 anni - c’è stata una sparatoria, sono rimasta terrorizzata non mi sono più ripresa». «Se le Rsf trovano persone in casa – racconta Zahra, 8 anni - le picchiano, uomini, donne, ragazze, picchiano chiunque».

«Ho visto un uomo tagliato a metà – dice Ramadan, 7 anni -. È spaventoso, non è come un proiettile che uccide e basta, fa a pezzi le persone. Un grosso proiettile è caduto sulla nostra casa e ha ferito la gamba di mia sorella. Una volta, invece, è quasi caduto sulla mia testa sono salvo perché mia madre mi ha spostato all’ultimo». «Una volta una granata – Ghazal, 7 anni - è caduta su un uomo che dormiva nel suo cortile, l'ha fatto a pezzi, gli sono rimaste solo le gambe». I piccoli, sono anche testimoni della spaventosa ascesa delle violenza sulle donne e le ragazze. «Se quelli dell'Rsf vedono una ragazza entrare in un edificio – ancora Zahara – la seguono e chiedono alle persone dove sia quella ragazza. Se gli rispondi “non è qui” ti picchiano, ma se indichi dov’è, ti lasciano andare. Una volta uno delle Rsf ha detto a una signora: “Ho visto una ragazza lì dentro, deve essere mia” e ha picchiato la donna che non voleva dire dove fosse la ragazza».

La scuola è un ricordo

Il tempo fatto di normalità infantile, di gioco, di scuola sembra un lontano ricordo. I bambini temono che possa non tornare più. «Di solito – racconta Safa, 9 anni - mi festeggiavano a casa, mi compravano una torta e tutto quello che volevo. Il mio compleanno è passato e non hanno fatto nulla per me a causa della guerra».

«Quando ho superato la prima elementare – Manar - mi hanno trasferita in una scuola per persone dotate di talento. Ho superato il primo e il secondo anno, ma al terzo esame è scoppiata la guerra e ho dovuto interrompere. Questo mi rende molto triste».

«La scuola è chiusa – spiega Duaa Tariq – noi non possiamo rimpiazzarla, ma i bambini hanno un disperato bisogno di normalità, di stare insieme in spazi sicuri. Noi raccogliamo volontari che insegnano le materie principali, li fanno disegnare, giocare, leggere. E soprattutto puntiamo a creare per loro opportunità di parlare dei loro traumi, delle paure, ma anche dei sogni, per sentirsi parte di una comunità che con umanità e affetto prova a proteggerli». Le Err gestiscono centinaia di children safe spaces in tutto il Sudan e accolgono migliaia di bimbi. Al centro di Duaa ne afferiscono una novantina dai 2 ai 12 anni, «il popolo ha compreso che l’unica salvezza è la solidarietà tra noi, e questo processo compirà la nostra rivoluzione».
 

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