Il Sudan è da ormai quattro mesi e mezzo in guerra ma tutti sembrano essersene dimenticati. Sgomberate le sedi diplomatiche e messi al sicuro il personale delle ambasciate e le presenze estere, il mondo ha voltato pagina e dismesso interesse, lasciando il paese abbandonato a sé stesso a rotolare a ritmo infernale verso il baratro della guerra aperta. Si intensificano di giorno in giorno i combattimenti tra le Forze armate sudanesi (Saf, l’esercito regolare) e le Forze di supporto rapido (Rsf) per il controllo del territorio.

Negli ultimi giorni gli scontri si sono concentrati attorno alla base dei corpi corazzati a Khartoum, il campo base dell'esercito, fino ad ora sotto il controllo delle Saf, e di grande importanza per entrambe le parti in conflitto. La situazione dei civili è drammatica. Quasi 5 milioni di sfollati interni ed esterni, strutture sanitarie, educative e civili ormai allo stremo.

Le notizie di stupri, violenze ripetute su donne e ragazze si moltiplicano, mentre sarebbero almeno 8.000 le persone rimaste uccise e altrettante quelle ferite. I bambini, come in tutti in conflitti, sono le principali vittime. Secondo Save the Children, almeno 500 minori sono morti per fame mentre giungono con sempre maggiore frequenza notizie di ragazzi tra i 13 e i 14 anni reclutati come bambini soldato dalla Rsf: filmati mostrano giovanissimi che indossano l'uniforme o guidano veicoli militari.

Il testimone

In esclusiva per Domani, previa garanzia di anonimato dati gli altissimi rischi che corre, un rappresentante delle Sudan’s Forces of Freedom and Change (Ffc), il principale raggruppamento politico della società civile, protagonista della rivoluzione che ha rovesciato nel 2019 Omar al Bashir, raggiunto al telefono a Khartoum, ha così descritto la situazione del paese. «Ormai sono molti i luoghi, come le tre città che formano la capitale (Khartoum, Bahri e Omdurman) a essere totalmente coinvolti nel conflitto, ormai ridotti in macerie. Le Rsf stanno vivendo un buon momento dal punto di vista tattico, sono più forti grazie alla catena di rifornimento che funziona grazie agli ottimi rapporti con la Libia, la Repubblica Centrafricana e al fatto che controllano la pipeline ad Omdurman, anche grazie al supporto della Wagner. Le Rsf, poi, possono contare sul potente sostegno degli Emirati Arabi Uniti, interessati ad appoggiare regimi a forte impronta islamica».

Guardando il paese nel complesso, chi detiene il maggiore controllo?

«Al momento, si può affermare che le due forze in guerra detengono ciascuna il 50 percento circa del controllo sul territorio, ma ci sono alcune zone come quasi tutto il Darfur, dove il comando delle Rsf sale all’80 percento, nella capitale, Al Geneina, è praticamente il 100 percento».

Qual è la situazione della popolazione civile, come si è trasformata la vita quotidiana nelle città dove infuria il conflitto?

«Nel giro di poche settimane a partire dallo scoppio della guerra, la condizione di molte città si era già trasformata in un inferno, ma ora è drammatica. Moltissime famiglie hanno perso tutto, case, soldi, veicoli, il governo non riesce a far fronte alle esigenze primarie della popolazione e in più gli aiuti umanitari non arrivano o arrivano col contagocce anche perché abbiamo certezza che molti degli aiuti vengono acquisiti e venduti dal governo invece di essere distribuiti alla popolazione. Chi lavora per lo stato non riceve stipendi da almeno quattro mesi. È ormai impossibile vivere in molte aree del paese: in Darfur o in Kordofan mancano cibo, acqua, elettricità e la comunicazione è ai minimi termini. I servizi sanitari sono distrutti o inaccessibili, a Khartoum, ad esempio funzionano solo tre ospedali per una popolazione che prima della guerra era circa di 6,5 milioni di abitanti».

L’incontro in Etiopia

Di recente i gruppi della società civile sudanese si sono incontrati ad Addis Abeba, per discutere di come porre fine alla guerra. «I gruppi firmatari del Framework (il 5 dicembre scorso, le forze politiche hanno siglato un accordo quadro che avrebbe dovuto portare il Sudan ad avere il primo esecutivo interamente composto da civili della sua storia, ndr) hanno deciso di prendere una iniziativa negoziale e proporre una road map per risolvere il conflitto attraverso una via politica. Dopo un primo incontro al Cairo ci siamo visti ad Addis Abeba a metà agosto, erano presenti tutti i gruppi firmatari eccetto alcuni che hanno avuto problemi logistici. Per noi è fondamentale far emergere la voce della società e crediamo che il percorso di Gedda (la città saudita ospita da mesi colloqui sponsorizzati da Usa e Arabia Saudita, ndr) sia utile per affrontare i nodi militari, quello di Addis Abeba per risolvere le questioni politiche. Si tratta di meeting preparatori per dare il via a un percorso che metta uno di fronte all’altro i leader militari e le forze in campo per far cessare il fuoco al più presto e cominciare a negoziare». Avete ottenuto sostegno internazionale? «L’iniziativa ha l’appoggio dell’Unione Africana, dell’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, un'organizzazione politico-commerciale formata dai paesi del Corno d'Africa, ndr), Usa Arabia Saudita e tutti i paesi confinanti. Abbiamo stilato un documento che ha trovato l’accordo di tutti e confidiamo che sia il primo passo verso una vera pace».

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