Il filosofo Cornel West fa parte di una categoria americana sempre più ridotta: quella degli intellettuali pubblici. Ancor più ristretto è il gruppo di cui fa parte lui, ovvero gli intellettuali afroamericani di sinistra radicale, persone che in genere non temono di puntare il dito contro quelle che sono le storture della società americana bianca. Per quello sorprende la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, sostenuto da un piccolo partito che per ora è esistito solo sulla carta o quasi, il People’s Party, che nel nome richiama un altro partito di fine Ottocento, di matrice socialista e agraria, che alle presidenziali del 1892 riuscì ad affermarsi in cinque stati rurali.

Se però, come sembra, l’obiettivo di quelli che sono i nuovi “populisti” (il termine moderno deriva proprio da quell’esperienza politica, anche se ormai ha assunto un significato molto diverso) è la rilevanza, nessuno è meglio di West per raggiungere questo scopo: settant’anni compiuti da pochi giorni , di sicuro non passa inosservato, con una folta chioma di capelli grigi e un piglio da provocatore ma anche da predicatore. E del resto quella del religioso era la professione di suo nonno Cornel Senior, predicatore presso la chiesa battista di Tulsa in Oklahoma. Riassumere il suo complesso set filosofico di idee è difficile in poche righe. Possiamo però affermare che la filosofia di West sia un interessante mix di cristianesimo, socialismo e pensiero “nero”.

Cosa s’intende? Quelle correnti di pensiero che negli anni Settanta incarnavano con toni diversi il nuovo radicalismo afroamericano e per le quali West ha espresso ammirazione nel corso del suo percorso accademico presso le università di Princeton e Harvard: l’islamismo di Malcolm X, il marxismo delle Black Panthers e la teologia metodista nera di James Cone. In tutte questi ambiti, la costante è la liberazione delle minoranze dal giogo oppressivo della società “patriarcale e suprematista bianca” statunitense. E del resto West non ha mai cessato per questo di definirsi cristiano, ragion per cui rifiuta con sdegno l’etichetta di marxista che a volte gli viene affibbiata. Con piena ragione. La tradizione che West sposa ha radici diverse, addirittura precedenti alla guerra civile americana: nasce nel 1845 con la pubblicazione del memoir autobiografico Vita di Frederick Douglass, schiavo, dove il pubblico americano bianco per la prima volta capisce la natura brutale della schiavitù e viene apertamente accusato dello status inaccettabile di milioni di persone private della libertà.

West è l’erede di questa tradizione che annovera anche un altro dei suoi riferimenti culturali, il sociologo W.E.B. Du Bois, uno dei primi demistificatori della visione edulcorata del passato confederato e l’inventore del concetto di “razzismo sistemico”. Un concetto che West riprende nel suo pensiero e nelle sue opere, a cominciare da Race Matters, un libro uscito nel 1993 sulla crisi di leadership della comunità afroamericana e che si riassume l’intrinseco razzismo della struttura sociale nei confronti dei neri che prescinde dalla bontà o meno dei singoli e che rende quindi istituzioni come il governo federale e i tribunali intrinsecamente razzisti. La domanda è: come far digerire certi concetti all’elettorato bianco? Non è dato sapere.

E del resto West è stato forse uno dei più duri accusatori dell’unico presidente afroamericano, Barack Obama, da lui ritenuto «una marionetta dei poteri forti di Wall Street» e una «delusione storica» che ha portato a «una contraffazione del progressismo» trasformando quindi la presidenza Obama in una «presidenza dei droni e della sicurezza nazionale». Se quindi il disprezzo di Barack Obama lo accomuna all’ala trumpista dei repubblicani, West dopo le elezioni del 2016, dove lui aveva sostenuto con forza la candidatura di Bernie Sanders, senatore socialista del Vermont, stato con una percentuale di bianchi superiore al 90 per cento, aveva mostrato di comprendere quella «classe lavoratrice bianca» che aveva respinto il «neoliberismo delle elite autoreferenziali» votando Donald Trump. Come conciliare, dunque, questo poutpourri ideologico con l’esigenza di raccogliere voti?

Anche in questo caso non abbiamo una risposta. Estremamente probabile che West sorprenda ancora gli osservatori con un’originale lettura della realtà che gli farà conquistare qualche voto in quella sinistra orfana proprio di Sanders che non si riconosce in un Joe Biden ritenuto troppo centrista. Qualora le cose vadano male per i democratici alle presidenziali del 2024, Cornel West raggiungerà quel girone speciale dell’inferno progressista dove già siedono Ralph Nader e Jill Stein, rispettivamente candidati alle presidenziali del 2000 e del 2016 con piattaforme radicali, entrambi accusati dai commentatori liberal di aver fatto deragliare le candidature di Al Gore e di Hillary Clinton. Un assunto consolatorio che però rimuove l’abbandono di un pezzo della coalizione progressista che i democratici devono giocoforza comporre ogni elezione presidenziale. Cornel West direbbe che in entrambi i casi citati il problema era lo scarso appeal dei candidati. E nel 2024 si pone un problema analogo, come West sa bene.

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