L’Isis non è del tutto morto, come si evince dai vari attacchi in Siria, l’ultimo dei quali è costato la vita a più di 20 militari dell’esercito di Assad. Anche in Iraq ogni tanto avvengono incursioni anche se più episodiche e meno gravi. Mentre con Damasco gli Stati Uniti non hanno relazioni ufficiali, vogliono rafforzarle con Baghdad per contrastare l’influenza iraniana. La domanda è sempre la stessa: come aiutare gli alleati a sostenersi senza coinvolgimento americano. Ormai non è più tempo di azioni occidentali dirette, né dei francesi in Africa come degli Usa in Medio Oriente. In vari scacchieri geopolitici questo è un problema da risolvere: più volte si è riscontrato che malgrado molta spesa e notevoli sforzi, i tentativi di creare eserciti alleati non hanno funzionato.

Per gli Stati Uniti gli esempi negativi sono molteplici: dalle forze armate sud-vietnamite che non ressero l’urto dei vietcong e si sfaldarono (si tentò la vietnamizzazione della guerra), al precedente tentativo in Iraq (la golden brigate che si squagliò davanti all’Isis a Mosul) o all’esercito afghano che si liquefece in poche settimane di fronte ai talebani nell’agosto di due anni fa. Forgiare dei suppletivi efficaci che combattano battaglie non sentite come proprie è molto difficile. Occorre dunque trovare una nuova modalità strategica che permetta di mantenere il controllo senza mostrarsi troppo, senza prendere il posto dei protagonisti e senza sostituirsi ai loro interessi.

Equilibrio

Nel caso iracheno ciò prevede innanzi tutto che l’approccio delle varie agenzie governative statunitensi sia unitario e coordinato (in passato c’è stata molta competizione interna), per consentire la relazione ordinata che permetta all'esercito iracheno di resistere da solo. La presenza americana in Iraq (circa 2500 uomini) rappresenta un rischio: fatta oggetto di attacchi sporadici ma persistenti da parte delle milizie filoiraniane, rende scomoda la posizione del governo che vorrebbe mantenersi in equilibrio tra Usa e Iran.

L’idea è di non offrire pretesti a chi è ostile. Chi potrebbe aiutare in tale direzione sono i paesi di Golfo che nell’ultimo decennio hanno notevolmente sviluppato il proprio strumento militare. I propositi americani sono anche di tipo economico: spingere l’Iraq il più possibile lontano da Teheran, indirizzandolo verso un nuovo baricentro di investimenti e commercio. Resta il fatto che per tutti –anche per gli iraniani- l’Isis è un problema: si calcola che siano attivi circa 1000 combattenti dello stato islamico in Iraq e un numero di poco superiore in Siria. Lo Stato islamico al suo apice, nell’area chiamata in gergo Siraq (non ha mai riconosciuto la frontiera tra i due paesi), gestiva un territorio di circa 8 milioni di persone. Oggi è molto indebolito e perde leader continuamente ma non scompare del tutto. L’impressione generale è che, se si allentasse la presa, il gruppo armato risorgerebbe dalle sue ceneri.

L’amministrazione Biden sta cercando uno schema diverso da quello afghano: mantenere una minima presenza senza rinunciare ad essere determinanti. Non si vuole lasciare Baghdad come è stato fatto con Kabul, anche per via dell’Iran che rimane un nemico malgrado il suo riavvicinamento con Riad. Una delle preoccupazioni americane è la persistente corruzione delle forze irachene, che rende difficili operazioni efficaci senza che qualcosa filtri prima.

Armi russe

C’è poi la questione dell’armamento: l'esercito iracheno continua ad usare un mix di armi russe e statunitensi (o occidentali), difficile da impiegare in termini di addestramento ed efficienza. Non che manchino finanziamenti: grazie all’aiuto di Washington in Iraq si è giunti a spendere per il settore militare oltre 150 miliardi di dollari annui per circa 200.000 effettivi. È utile ricordare che durante l’occupazione americana l’esercito di Saddam era stato completamente destrutturato (favorendo addirittura la nascita dell’Isis) ed è stato necessario ricostruire tutto da zero. Per questo in Iraq milizie di vario tipo, essenzialmente quelle sciite legate alla forza al Quds del corpo dei guardiani della rivoluzione, mantengono un importante ruolo indipendente, in buona sostanza contrario a Washington. Infine nel semi-autonomo Kurdistan iracheno, le brigate peshmerga curde rimangono fedeli ai propri leader pur dipendendo quasi completamente dai flussi di finanziamento statunitensi (più di 20 milioni di dollari al mese), senza i quali si frantumerebbero rapidamente, come d’altronde potrebbe accadere al YPG in Siria.

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