La linea di attacco della Russia all’occidente utilizza il tema “decolonizzazione”. Senza considerare la propria storia imperiale, Mosca accusa l’Europa e gli Stati Uniti di “spirito coloniale” nei confronti degli altri popoli e continenti, cercando in tal modo di accaparrarsi le simpatia del sud globale (africani, latinoamericani e asiatici).
Dal momento che le frontiere mondiali in genere furono disegnate o quantomeno influenzate dalle potenze coloniali europee e (per quanto riguarda il continente americano) dagli Stati Uniti, il gioco è facile. Ultimo caso quello del Venezuela che rivendica la regione di Essequibo della Guyana, con il pretesto di un confine imposto dai britannici. Il ministro Sergei Lavrov ha detto: «Assistiamo a istinti neocoloniali in occidente». Il colonialismo è diventato un termine di riferimento geopolitico diffuso.

Anche Israele viene (abusivamente per uno stato creato da una votazione Onu) marchiato con tale definizione, con l’aggravante che gli stessi settlers di estrema destra in Cisgiordania non disdegnano di usare il temine “coloni”.
La lotta nazionale palestinese diventa la causa di tutti coloro che si sentono in un modo o nell’altro espropriati (di territorio, diritti ecc.) e vanno in cerca di compensazioni. Il tema “coloniale” è un pericolo reale per Israele poiché rilancia in modo nuovo (e apparentemente consensuale) il tema dell’esistenza stessa dello stato. Non è da prendere sottogamba: con una nuova votazione al consiglio di sicurezza soltanto i veti (occidentali) salverebbero Israele.

Polemica più vasta

Tuttavia la polemica post-coloniale o neocoloniale è più vasta e con conseguenze molto più dilatate, come riporta Roger Cohen sul New York Times. Da tempo in Africa si pensa che la decolonizzazione non è mai stata completata, non solo a causa del neocolonialismo economico ma soprattutto per l’esigenza di una “decolonizzazione mentale”.

Tornano in auge – in particolare tra i giovani africani – i fautori di una linea radicale come Franz Fanon o alcuni leader dell’indipendenza come Patrice Lumumba, Thomas Sankara e così via.
La questione della supremazia occidentale è considerata congelata nelle strutture multilaterali uscite dalla seconda guerra mondiale: in particolare il consiglio di sicurezza e i P5, cioè i cinque membri permanenti con diritto di veto tra i quali vi sono, oltre gli Usa, due ex potenze coloniali.

Paesi grandi come il Brasile o l’India non hanno la medesima influenza, così come non la possiede l’Africa che da anni preme per entrare tra i membri permanenti. Tra i 193 stati delle Nazioni unite ci si lamenta che soltanto alcuni siano in grado di dettare la linea o di bloccare ciò che va contro i loro interessi.

Russia e Cina 

Non sorprende che, collegandosi con le vecchie concezioni della guerra fredda, sia la Russia che la Cina (pur P5 anch’esse) tentino di cavalcare la tigre della battaglia anticoloniale, come già fecero negli anni Cinquanta-Settanta.
E nemmeno stupisce che alcune classi dirigenti del sud ne approfittino per consolidarsi al potere. La contestazione dell’ordine costruito nel post 1945 è orami permanente, con Mosca che cerca di recuperare qualcosa di ciò che ha perduto dopo il 1989 e Pechino che, al contrario, vorrebbe mantenere tutto com’è, solo issarsi al primo posto.

Leggere gli attuali conflitti come dovuti alle conseguenze dell’oppressione coloniale (o post coloniale) è molto conveniente per élite senza ideologia di riferimento sorte nel calderone della globalizzazione che tutto ha rimescolato e confuso.
In realtà il confronto con il passato che si vorrebbe far rivivere non è coerente: oggi è possibile mantenersi al governo anche contro l’assenso dei “grandi” mentre all’epoca dello scontro bipolare era quasi impossibile. L’aiuto alla resistenza ucraina non sarebbe stato immaginabile prima della caduta del muro: Budapest 1956, Praga 1968 e Varsavia 1981 stanno lì a ricordarcelo.

L’urto nord-sud

Tuttavia oggi lo schema dello scontro est-ovest sta lasciando il posto ad un rinnovato urto nord-sud, in cui l’accusa di colonialismo diviene un’arma dialettica contundente.
Tornano le polemiche sulla tratta degli schiavi rimaste in sospeso dopo il fallimento della conferenza Onu di Durban del 2001 (quella «contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza»), in cui non si trovò accordo proprio a causa (attenzione!) della crisi israelo-palestinese.

Fu uno choc al tempo del grande entusiasmo per il multilateralismo: non si era mai visto un naufragio di conferenza internazionale di quella portata. La questione ora torna in superficie. Intellettuali del sud globale sostengono che il colonialismo sia stato “l’atto di forza fondativo” dell’occidente che ha consentito il suo arricchimento e la successiva rivoluzione industriale, offrendogli il dominio del mondo.

Contrastare (soprattutto sul piano sentimentale ed emotivo) tale visione degli ultimi 500 anni è molto difficile: schiavismo e tratta sono esistiti; sfruttamento e lavoro servile anche così come il colonialismo.
Per risultare meno responsabili non basta chiamare in correo gli arabi per la tratta orientale, i russi per la loro parte di colonialismo a est o l’imperialismo cinese. Il passato divora il presente con una lettura morale della storia, tipica dell’età della geopolitica delle emozioni.
La cosa funziona anche al contrario: ad esempio la Shoah non sembra più sufficiente a giustificare le guerre israeliane. Storia e memoria non vengono purificate ma usate come armi polemiche e chiunque può subirne l’effetto boomerang. Non solo le ferite del colonialismo non si sono rimarginate ma vengono riaperte con effetti deformanti.

Il fronte interno

Il guaio per l’occidente è che la controversia possiede un fronte interno a causa della “critical race theory” che ha investito la società contestando le basi stesse della democrazia. Si tratta della cultura woke che si basa su un discorso di analisi e categorizzazione delle vittime: molte sono le vittime ma non tutte sono uguali.

Così nelle università americane si è ristudiata la storia alla luce delle tipologie particolari di vittime razziali, indigene o native (i popoli originari), islamiche o religiose, comunitarie di ogni tipo, sessuali o di genere e così via, accusando di atteggiamento mentalmente “neocoloniale” (o post coloniale) i bianchi, e in particolare i “maschi bianchi” additati come la classe oppressiva per eccellenza.

Da qui le polemiche sull’abbattimento delle statue e sulla cancellazione di pezzi di memoria del passato (cancel culture). Nessuno può salvarsi da tale tormenta intellettuale e sentimentale: la recente disputa contro le tre rettrici delle università americane, accusate di non aver reagito agli slogan anti-ebraici durante le manifestazioni studentesche a favore dei palestinesi, dimostra che la rottura è totale e può essere bidirezionale. 

Ormai la concorrenza tra vittime e la loro gerarchizzazione è all’ordine del giorno, confondendo passato e presente. L’intenzione dei sostenitori della teoria critica della razza è che «la vergogna cambi di campo»: i neri e le altre razze o minoranze di ogni specie si sono vergognate per secoli di sé stesse, sottoposte all’umiliazione (aperta o latente) dei “bianchi”.

Oggi tocca a questi ultimi a doversi vergognare di sé stessi, per provare le stesse orribili sensazioni subite dalle minoranze per secoli. Nella corsa al rispetto dei diritti delle minoranze la società viene fatta a pezzi: gli ex oppressi “risvegliati” vogliono prendere i comandi (se non del potere almeno della cultura), cancellando la vecchia storia suprematista “bianca” e creandone una propria.

Attualmente nelle biblioteche o librerie americane la dimensione della sezione “studi afroamericani e nativisti” supera di gran lunga quella della storia tradizionale o degli affari correnti. È ovvio che tale fronte interno ben si salda con la polemica anti coloniale del sud globale (manipolata dalla propaganda di Mosca), creando una contraddizione interna all’occidente. 

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