La ong Sea Watch ha denunciato il rimpatrio illegale di 269 migranti in Libia. In un video su Twitter, una portavoce dell’organizzazione ha accusato l’Italia di essere responsabile dei rimpatri forzati commessi dalla guardia costiera libica che riceve finanziamenti anche dalle autorità italiane.

Le denuncia dell’Oim

Oltre a Sea Watch, anche l’Organizzazione internazionale per i migranti (Oim) ha denunciato il rimpatrio in Libia di 800 persone che hanno provato a raggiungere le coste europee il 4 febbraio. Secondo l’agenzia delle Nazioni unite, la guardia costiera libica ha deportato nei centri di detenzione persone che scappavano «da gravi condizioni umanitarie». Ripostando il tweet dell’Oim, Sea Watch ha detto che gli 800 migranti rimpatriati fanno parte di un gruppo di oltre mille migranti che hanno provato ad abbandonare il paese nella giornata del 4 febbraio. Di questi 65 sono riusciti a raggiungere l’isola di Lampedusa mentre 350 risultano dispersi. In precedenza, Alarm Phone e Moonbird avevano dato l’allarme su diverse imbarcazioni che si trovavano in situazioni precarie al largo della Libia. 

Cosa sta accadendo in Libia

Il 2021 ha già visto la morte di 60 migranti affogati mentre cercavano di raggiungere le coste italiane. In un’intervista a Domani, l’inviato speciale  dell’Unhcr nel Mediterraneo Centrale, Vincent Cochetel ha chiesto all’Unione europea di essere maggiormente presente nella zona per evitare il ripetersi di tragedie simili. Il 25 gennaio, un naufragio al largo della Libia ha causato la morte di 17 migranti mentre anche in quel caso la guardia costiera libica aveva rimpatriato le altre 82 persone sopravvissute alla tragedia. Il primo naufragio era invece avvenuto il 20 gennaio al largo di  Zawiya ed era costato la vita a 43 persone.

In quel caso a lanciare l’allarme sulla pericolosità dei rimpatri in Libia era stato lo staff dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) che aveva denunciato come i dieci sopravvissuti al naufragio e riportati in Libia si sarebbero trovati di fronte a «una situazione estremamente precaria». Un processo in Italia ha infatti fatto luce sulle violenze commesse nei centri di detenzione libici dove i carcerieri torturano i migranti in videochiamate coi familiari per ottenere soldi.

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