È singolare che nelle analisi sui preoccupanti scenari delle relazioni internazionali non sia dato giusto risalto al discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella pronunciato il 7 maggio scorso davanti alla Assemblea generale delle Nazioni unite.

L’articolo 87 della Costituzione gli demanda il ruolo di «garante dell’unità nazionale» e il percorso di giurista e costituzionalista – insieme a quello di una lunga carriera politica – ha un peso nelle sue prolusioni, come appunto in quest’ultima pronunciata alle Nazioni unite già dal titolo emblematico: «Italia, Nazioni unite e multilateralismo per affrontare le sfide comuni». Nell’esordire, il primo passaggio è riferito a un’idea di fondo probabilmente ancora da esplorare, non solo nei contesti accademici: il processo che ha portato alla Costituzione italiana è stato strettamente legato alla scelta di aderire al sistema delle Nazioni unite. Il presidente ricorda che occorsero dieci anni dalla loro istituzione perché l’Italia vi venisse accolta nel 1955.

Il senso del discorso appare un monito al revisionismo che sembra alimentare il dibattito politico tutto italiano, per convergere sui valori fondativi della Costituzione. A margine del discorso del presidente si impone un richiamo al clima in cui l’Italia – appena uscita dal fascismo e dalla complicità con Hitler – si presentava davanti alla comunità internazionale. È il contesto in cui Alcide De Gasperi pronunciò le storiche frasi alla Conferenza di Parigi del 1946: «... sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato [...] ma, innanzi alla coscienza del mio paese e per difendere la vitalità del mio popolo, ho il dovere di parlare come italiano, sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le sue aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionalistiche dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire». Era lo scenario in cui l’Italia correva il rischio di rimanere emarginata nel processo di rinascita dell’Europa, in cui non eravamo considerati tra i vittoriosi, nonostante i morti della Resistenza.

La tesi del presidente è netta sulla Carta delle Nazioni unite, la quale non può che essere il riferimento essenziale per assicurare l’ordine internazionale ancora oggi, sulla base dei principi fondamentali affermati con grande lungimiranza alla Conferenza di San Francisco del 1945: il rispetto per la sovranità nazionale, il diritto all’autodeterminazione dei popoli, l’obbligo di risolvere le controversie internazionali mediante mezzi pacifici, il rispetto per i diritti umani e per la dignità delle persone, senza distinzione di etnia, religione oppure origine sociale. Per il presidente dunque «la Carta, assieme alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948, è fondamento della convivenza tra i popoli. Un’esigenza riflessa nel suo obiettivo primario: il mantenimento della pace».

Una pace per l’Ucraina

Inevitabile e dunque senza equivoci è la riflessione sull’aggressione illegittima della Federazione Russa contro l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Ucraina: «L’aggressione mossa dalla Federazione Russa all’Ucraina contraddice le ragioni fondanti dell’Onu ed è ancora più grave in quanto proveniente da uno dei Paesi su cui ricadono maggiori responsabilità nella comunità internazionale, come membro permanente del Consiglio di sicurezza». Segue il richiamo all’articolo 51 della Carta dell’Onu che dispone il diritto all’autodifesa. Alla Russia vanno dunque imputate «la grande responsabilità storica di avere ricondotto la guerra nel cuore del continente europeo», «la pretesa di riportare indietro le lancette della storia», e l’avvio anche di una «nuova corsa agli armamenti».

Le ulteriori riflessioni del presidente enunciano anche altri concetti che sembrano porre all’angolo le abusate speculazioni di chi pone in discussione il sostegno all’Ucraina. Smentisce innanzitutto la tesi su un’asserita enfatizzazione di un conflitto che poteva essere gestito come una crisi “regionale”: per Mattarella l’invasione russa dell’Ucraina «non è un mero conflitto regionale (...) non foss’altro perché a esserne protagonista è una potenza che ambisce a esercitare influenza e ruolo globali». Poi contraddice le tesi giustificazioniste di una Russia vittima dell’espansionismo della Nato e che vorrebbe ricostruire una sua presunta “identità storica” comprensiva del popolo ucraino. Il presidente richiama in proposito l’apertura alla Russia già prima della caduta della “cortina di ferro” con il dialogo propiziato dagli accordi di Helsinki del 1975, mentre ora «spinte veteronazionalistiche, pulsioni neoimperialiste se non neocolonialiste, competizione tra potenze in luogo di cooperazione, ripropongono una polarizzazione del sistema internazionale che nuoce alla libertà e alla parità delle relazioni tra gli Stati e i popoli e mette a rischio la pace». Si può cogliere qui un implicito riferimento anche al ruolo della Cina che minaccia Taiwan e l’Indo-Pacifico. La conclusione è dunque che «la pace è interesse di tutti i popoli. Ovunque».

Dai due stati agli altri scenari

Sono questi gli stessi principi che devono applicarsi anche per la crisi di Gaza, dove la comunità internazionale deve giungere alla de-escalation, un obiettivo che la Repubblica italiana si è assegnata anche nell’assumere la presidenza del G7. In quell’area occorre porre fine alla catena di azioni e reazioni e consentire un processo che ponga termine ai massacri: una «pace stabile» passa necessariamente dal «riconoscimento dei due Stati di Israele e di Palestina», e con il definitivo «riconoscimento di Israele e della sua sicurezza da parte degli stati della regione. Altri passaggi dell’intervento richiamano quindi le crisi della regione: in Siria, nello Yemen, nel mar Rosso dove è compromessa la libertà di navigazione elemento caratterizzante della convivenza internazionale.

Quanto alla minaccia nucleare il presidente ricorda che anche solo evocarla significa violare il diritto internazionale e il quadro pattizio faticosamente costruito per l’interesse comune a limitare e controllare gli arsenali nucleari: il rischio è evidente «per i destini dei popoli, tutti, anche quelli i cui governi minacciano l’uso delle armi nucleari». Il presidente giunge quindi alla conclusione con la proposta finale : «Serve un’Onu sempre più rappresentativa ed efficace», al passo con i tempi. Il richiamo dunque è alle ipotesi di riforma già in discussione alle Nazioni unite e che a settembre potrebbero definirsi nel c.d. Patto per il Futuro. Il progetto è delineare un «processo inclusivo» per tutti gli attori della scena internazionale: a livello di singoli Paesi, ma anche di gruppi regionali.

In questa prospettiva la proposta cui il presidente fa esplicito cenno è l’iniziativa Uniting for Consensus, in cui attraverso una implementazione dei seggi non permanenti al Consiglio di sicurezza dovranno trovare rappresentatività regioni in atto sottorappresentate, come l’Africa, l’Asia-Pacifico e l’America Latina-Caraibi, l’Europa orientale e i piccoli Stati insulari in via di sviluppo (Sids), «per rimediare a un’ingiustizia storica a tutti evidente» sottolinea il presidente. Il senso del discorso del presidente della Repubblica alle Nazioni unite è stato chiaro anche per contrastare le speculazioni di chi (il riferimento è a Russia e Cina che promuovono le iniziative dei Brics e della Shanghai Cooperation Organisation) soffia sul fuoco delle divisioni fra «Nord e Sud globali»: è tempo di riformare le istituzioni dell’Onu che sono state modellate sui rapporti usciti dalla Seconda guerra mondiale, perché occorre plasmarle sulle attuali sfide per la pace, riconoscendo il ruolo dei nuovi attori della «cooperazione continentale» come l’Unione africana e l’Unione europea, e altri in sviluppo in varie regioni del mondo. Se l’Italia sarà coesa al suo interno su questi principi, potrà promuovere una leadership efficace, e tracciare il suo “dizionario minimo” per affrontare le sfide alla pace del XXI secolo.
 

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