L’invasione russa dell’Ucraina ha causato lo sfollamento di circa sei milioni di persone, ma un risvolto positivo è che i paesi dell’Unione europea che ospitano i rifugiati sono stati, a detta di molti, “straordinariamente accoglienti” nei loro confronti. Invece di essere trattenuti a tempo indeterminato in centri di detenzione disumani, molti di questi rifugiati ucraini, che sono per lo più cristiani bianchi, hanno potuto soggiornare gratuitamente presso famiglie in Europa, oppure in alberghi e dormitori. Anche i governi nazionalisti come il regime del primo ministro ungherese Viktor Orbán sono stati disposti ad accogliere i rifugiati ucraini, nonostante il primo ministro abbia affermato al più tardi nel dicembre 2021: «Non faremo nulla per cambiare il modo in cui il confine è protetto. Non lo cambieremo e non lasceremo entrare nessuno».

Orbán, che è diventato un eroe della destra americana e che incarna un certo stile illiberale di leadership “dell’uomo forte”, ha in passato diffuso l’idea che la migrazione di massa rappresenti una minaccia esistenziale per il suo paese e ha rinchiuso e fatto patire la fame ai rifugiati. Anche il ministro degli Interni polacco Mariusz Kaminski è stato rapido a mostrare solidarietà ai rifugiati ucraini annunciando a febbraio che «chiunque sta scappando dalle bombe, dai fucili russi, può contare sul sostegno dello stato polacco», nonostante pochi mesi prima il suo governo abbia speso centinaia di milioni di euro per costruire un muro di confine di 185 chilometri per dissuadere i mediorientali in cerca di asilo dall’entrare nel paese attraverso la Bielorussia. 

Il contrasto tra il trattamento riservato ai rifugiati ucraini e quello riservato ai paesi africani e mediorientali è netto: i primi sono stati accolti calorosamente, gli altri sono stati respinti, a volte nello stesso momento e dallo stesso confine.

Le complessità spesso barocche del sistema migratorio internazionale e il ginepraio dei rifugiati africani e dei richiedenti asilo sono stati raccontati dalla giornalista e collaboratrice di Foreign Policy Sally Hayden in un nuovo libro. My Fourth Time, We Drowned: Seeking Refuge on the World’s Deadliest Migration Route è una cronaca straziante e ampiamente documentata delle esperienze di tanti rifugiati che fuggono da dittature, violenze, persecuzioni e guerre. Il libro è il culmine della missione di una donna in cerca di fatti per scoprire la miriade di abusi subiti dai migranti che sperano di costruirsi una vita migliore in Europa. L’istinto da reporter di Hayden trapela in ogni pagina, così come la sua indignazione morale.

Complici e colpevoli

La sua rabbia è diretta giustamente alle politiche migratorie dell’Unione europea che hanno portato a violenza, estorsioni, crimini contro l’umanità. Nel 2015, ad esempio, l’Ue ha lanciato l’Emergency Trust Fund per l’Africa, volto a fermare la migrazione in Europa; da allora per la Libia sono stati stanziati 455 milioni di euro (487 milioni di dollari al cambio attuale), apparentemente per la migrazione e la gestione delle frontiere, ma grandi porzioni sono state invece passate a trafficanti e miliziani.

Hayden racconta di essere stata bloccata da alcuni funzionari delle Nazioni unite, che si sono rifiutati di parlare con lei in seguito a una sua inchiesta critica nei loro confronti, oppure di essere stata ostacolata dai media come freelance. «Come mai questa storia non è conosciuta a livello internazionale?», si chiede. E «come potrà mai migliorare qualcosa se il pubblico non ha mai visto la vergognosa e terribile realtà di ciò che accade?».

Oltre ai lavori pubblicati, Hayden ha usato i social media per far conoscere le sue scoperte. Anche in questo caso, tuttavia, la facilità con cui ha inviato i dispacci al resto del mondo è stata controbilanciata dal tremendo timore per il ruolo svolto dalle piattaforme di social media nel dirigere le sorti dei migranti africani. «La tecnologia è diventata sia una benedizione che una maledizione», ha scritto. «Potrebbe essere un’àncora di salvataggio per chiedere aiuto oppure un’umiliazione, il modo in cui amici e parenti ignari potrebbero venire a conoscenza di abusi, sofferenze e angosce in tempo reale». L’effetto è di ulteriore distorsione, gonfia il prezzo di riscatto per i migranti catturati.

Il racconto di Hayden copre il periodo tra il 2017 e il 2021. Durante questo periodo, si legge nel libro, più di 7mila uomini, donne, bambini (una stima conservativa) sono annegati nel mar Mediterraneo centrale; 80mila persone sono state intercettate in mare dalla guardia costiera libica e costrette a tornare in Libia, un paese ricco di petrolio che è diventato un centro di smistamento chiave per i migranti provenienti dall’Africa e dal medio oriente. Secondo Hayden, questa tattica «ha permesso all’Ue di aggirare il diritto internazionale», in particolare il principio di non-respingimento, in base al quale una persona non può essere rimandata in un paese in cui la sua vita è in pericolo. (La Libia non ha aderito alla Convenzione sui rifugiati del 1951, che conferisce ai rifugiati diritti internazionali).

Prigioni libiche

Il libro inizia, come è giusto che sia, nel 2018, con un messaggio che Hayden riceve su Facebook un giorno d’estate da un eritreo rifugiato ad Ain Zara, un centro-prigione di detenzione per migranti in Libia. Zara le invia foto del suo corpo emaciato, la supplica di contattare le agenzie dell’Onu per suo conto e la aggiorna sui contrasti in corso appena fuori dai cancelli del centro. Scrive Hayden: «Aveva violato due confini, era sopravvissuto al rapimento da parte dei trafficanti e aveva viaggiato per quasi 3mila chilometri per arrivare in Libia».

Dopo il fallimento della traversata del mar Mediterraneo per raggiungere l’Europa, era stato imprigionato nel centro di detenzione dove aveva trascorso mesi nel purgatorio migratorio insieme a centinaia di altre persone. L’intero gruppo ha fatto ricorso a un solo cellulare condiviso, utilizzato per effettuare chiamate di emergenza a parenti e giornalisti come Hayden.

L’eritreo ha raccontato a Hayden che lui e altri detenuti erano stati messi a lavorare come «schiavi nelle case di ricchi libici» e che le guardie libiche gli ordinavano di stare fuori nelle prime ore, al freddo, per l’appello, un rituale che ricorda l’appellplatz, osserva Hayden, che i nazisti facevano per umiliare i prigionieri nei campi di concentramento. Presto viene sommersa di messaggi Twitter e WhatsApp di altri rifugiati detenuti.

Rispetto ai venti centri ufficiali di detenzione per migranti libici di quel tempo, Hayden riesce a contattare metà delle persone, molte delle quali potrebbero essere qualificate come “migranti in difficoltà”, nella definizione della studiosa Jacqueline Bhabha, o persone per le quali “la mobilità rappresenta l’unica via d’uscita possibile” da condizioni di indigenza cronica, degrado ecologico o conflitto. Un’attività che un tempo era limitata agli uomini in cerca di lavoro agricolo stagionale è ora praticata da centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini nell’Africa subsahariana, nel sud-est asiatico, nell’America centrale e altrove.

Quella di “migranti in difficoltà” è una categoria che Hayden non invoca esplicitamente, ma è in linea con lo spirito del suo libro che cerca di ampliare le categorie esistenti della migrazione legale e di mettere in discussione le false dicotomie, come quella tra “rifugiati” e “migranti economici” che sono alla base del diritto migratorio moderno.

I rifugiati, secondo la Convenzione delle Nazioni unite relativa allo status dei rifugiati, hanno un «fondato timore di persecuzione» e quindi una richiesta legittima di protezione internazionale, mentre i migranti sono spesso trattati come delinquenti spinti spontaneamente da motivi pecuniari. Molti di quelli che Hayden ha intervistato sono stati spinti a fuggire per ragioni di sicurezza personale o per disperazione economica.

Spesso sono anche intrappolati in un dilemma: «La maggior parte aveva chiaramente diritto alla protezione internazionale, anche se l’ironia della legge sull’asilo è che per prima cosa devono illegalmente raggiungere un posto sicuro perché gli sia garantito il diritto di viverci», scrive Hayden. La giornalista sente di eritrei che cercano di eludere la coscrizione forzata, somali che fuggono dalla guerra o dal gruppo terrorista islamico di al-Shabab, etiopi che vengono repressi per la loro etnia, tigrini “stremati da una povertà incessante”, e altro ancora. Tutte queste persone avrebbero potuto beneficiare di aiuti umanitari prima di intraprendere i loro pericolosi viaggi; invece, affrontano la detenzione e la punizione.

Schema ricorrente

«Le loro storie sono stranamente simili», osserva, e seguono uno schema simile: gli africani orientali pagano dapprima migliaia di dollari ai trafficanti per farsi portare in Sudan (dove potrebbero subire aggressioni sessuali o vedersi estorti somme di denaro ancora maggiori dalla polizia corrotta), per poi imbarcarsi per quella che un rifugiato tra le fonti di Hayden chiama la «rotta della morte». (Hayden cita un’indagine di EUobserver che ha rilevato che l’Unione europea ha donato più di duecento milioni di euro al Sudan a metà degli anni 2010 per frenare la migrazione. E come ha riportato lo Spiegel, il Janjaweed, un gruppo paramilitare accusato di crimini di guerra nel Darfur, è stato uno dei beneficiari della generosità dell’Ue).

Se sopravvivono al viaggio di 800 miglia attraverso il deserto del Sahara, sono accompagnati a una struttura di detenzione nella forma di orrende prigioni-magazzino a Bani Walid, una città libica senza legge che i migranti chiamano la «città fantasma» a causa del numero di persone che misteriosamente svaniscono. In uno di questi complessi, racconta a Hayden una fonte, ci sono solo quattro bagni, «con un impianto idraulico inesistente». Le docce sono consentite solo ogni due settimane e i rifugiati sono ridotti a bere l’acqua dai servizi igienici.

Da lì, quelli che sopravvivono a bordo di gommoni sovraffollati e inadatti alla navigazione, se non si capovolgono, alla fine vengono intercettati da miliziani libici armati, che li spediscono nei centri di detenzione. Questi centri, dove i rifugiati finiscono per tenere traccia del tempo che passa, sono formalmente gestiti dal Dipartimento libico per la lotta alla migrazione illegale, che ha legami con il governo di accordo nazionale sostenuto dalle Nazioni unite, ma «in realtà», scrive Hayden, «il governo di Tripoli era debole, appoggiato da un insieme di milizie che operavano impunemente».

Una volta nelle fauci del centro di detenzione, i rifugiati in pericolo spesso iniziano a sentirsi «paralizzati, disconnessi, inutili». Alcuni centri di detenzione per migranti sono «raddoppiati come basi militari», osserva Hayden, «e i rifugiati sono usati come scudi umani». Descrive un campo di detenzione particolarmente tremendo nella parte est di Tripoli, che una fonte dell’Onu ha paragonato a Guantánamo Bay.

Il centro di detenzione di Tajoura era in un complesso militare con una rete sotterranea di celle che un tempo fungevano da camere di tortura. Era anche il quartier generale della milizia Daman. Un detenuto sudanese, punito dopo aver tentato la fuga, ha scritto: «Hanno rotto la mano a me e le gambe ai miei tre amici, poi ci hanno messo in una stanza privata lontano dagli altri. Ogni giorno ci puniscono: senz’acqua, senza cibo, stiamo per morire».

Quando sono scoppiati i combattimenti a Tripoli, i combattenti hanno costretto alcuni dei rifugiati dall’aspetto più forte a diventare combattenti oppure a occupare depositi di armi, pulire i carri armati, caricare le bombe sui veicoli e cucinare per i militari. Quando nel luglio 2019 il primo attacco aereo ha colpito un deposito di armi vicino, si è provocato il caos più totale: un rifugiato ha inviato a Hayden un video di detenuti che si lanciavano da una parte all’altra per trovare riparo o cercavano di sfondare le finestre per scappare.

«Si vede la polvere e si sentono le urla, quasi celebrative, come se molte persone deboli si fossero improvvisamente ricordate di essere vive, l’adrenalina scorre, il sangue pompa nelle vene», scrive Hayden. C’è anche l’odore terribile di carne bruciata. L’Onu in seguito ha stimato che il bilancio era di 53 vittime, ma i conti non ufficiali sono di quattro volte superiori.

Storie e racconto personale

Ciò che rende il calvario dei rifugiati africani ancora più terribile è il modo in cui le storie si susseguono nel racconto del viaggio di Hayden in diversi paesi africani, tra cui Eritrea e Sudan. Ad esempio, in una sezione che inizia con la storia di un rifugiato eritreo di nome Kaleb, che migra seguendo la rotta intrapresa in precedenza dal padre, Hayden intermezza i racconti con appunti presi nei suoi viaggi fatti nella regione nel 2015, come inviata di Vice. Ricorda di essere stata portata a fare un’escursione «da una gentile guida etiope e da un’agente di polizia». Mentre saliva la montagna, pensava: «Sembrava un luogo lontano dalla politica, anche se in seguito ho scoperto che il governo etiope stava costringendo le persone a spostarsi dai villaggi come parte di un piano per la conservazione del territorio e lo sviluppo del turismo».

In Sudan Hayden dá conto di un’atmosfera diversa: «Ho trovato uno stato fortemente controllato con un’aria di tensione generale in cui i civili subivano gli effetti devastanti delle sanzioni americane, imposte due decenni prima con l’accusa che il regime sudanese stesse sponsorizzando il terrorismo». Ad ogni modo, Hayden riesce a ottenere una lettera di approvazione timbrata dalla Commissione sudanese per i rifugiati, e con «un breve volo» o «un lungo viaggio in jeep» può facilmente essere portata nelle città commerciali o nei campi profughi. (Hayden riporta anche il suo disagio nel ricevere premi per le sue inchieste mentre le condizioni materiali dei rifugiati non sono migliorate).

Hayden trova il giusto equilibrio: invece di rischiare di mettere in secondo piano le storie dei rifugiati, i suoi racconti personali conferiscono loro una sfumatura surreale, sottolineando la natura arbitraria di chi può viaggiare liberamente, con i passaporti, e di chi è lasciato in balia di contrabbandieri e trafficanti. A suscitare in misura maggiore l’ira di Hayden, sono i governi corrotti e  le agenzie delle Nazioni unite inefficaci e sempre più aziendalizzate, che hanno contribuito largamente nel creare la crisi umanitaria in Libia.

Come una fonte le dice: «La quantità di tempo e denaro che [l’Alto commissario dell’Onu per i rifugiati] spende per visibilità e relazioni pubbliche è più di quanto spendono per il lavoro vero e proprio». L’asimmetria di potere tra chi vive una vita relativamente libera e i rifugiati in balia di mari mortali o detenzioni arbitrarie evidenzia «il divario che separa coloro che prestano attenzione e coloro che non devono farlo». Anche quando gli occidentali prestano attenzione c’è il rischio che questa sia passeggera. Hayden anticipa il problema: in una postfazione, parla del peso, dal punto di vista psichico, che la sua indagine ha avuto su di lei e della necessità di evitare di diventare compiacente.

Campanelli d’allarme

La situazione in Libia, un paese che non ha un governo stabile ed è divisa in fazioni rivali appoggiate da gruppi armati, è diventata ancora più drammatica da quando il libro di Hayden è stato pubblicato. Come ha rivelato un rapporto militare confidenziale dell’Ue trapelato all’Associated Press quest’anno, l’Europa prevede di continuare un programma che consente al paese nordafricano di «gestire una vasta area di ricerca e soccorso del Mediterraneo» nonostante il fatto che decine di migliaia di migranti hanno subito torture, abusi sessuali ed estorsioni da parte delle guardie del centro di detenzione.

Lo stesso documento, che richiede la continuazione del programma dell’Ue per addestrare il personale della guardia costiera libica (di cui una gran parte è composta da ex-trafficanti), rivela anche incongruamente che la polizia libica ha usato in passato «un’eccessiva… forza fisica» quando intercettava i migranti. La Libia poi ha recentemente nominato un trafficante-lupo a guardia del pollaio dei migranti, incaricando Mohammed al-Khoja, un noto leader della milizia che in precedenza gestiva il centro di detenzione di Tripoli Tarik al-Sikka, di guidare il Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale. La nomina è in linea con le azioni di repressione dell’immigrazione sanzionata dall’Ue in un paese devastato da anni di guerra civile.

L’accelerazione della crisi climatica rappresenta un’altra minaccia per i rifugiati negli anni a venire. L’ultimo rapporto dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) ha messo in guardia sugli effetti del riscaldamento globale, a due gradi Fahrenheit al di sopra dei livelli preindustriali, «molto più diffusi e molto più negativi del previsto». L’intensificarsi delle ondate di calore, delle precipitazioni e delle mareggiate, in gran parte provocato dalla combustione di combustibili fossili, causerà lo spostamento di più di un miliardo di persone entro il 2050, colpendo più duramente le popolazioni povere e senza diritti civili.

L’importante libro di Hayden dovrebbe suonare come un campanello d’allarme per le organizzazioni umanitarie internazionali e i leader mondiali. Osservando il rapporto Ipcc, il segretario generale dell’Onu António Guterres ha affermato che «il ritardo è morte». Lo stesso vale per i milioni di persone provenienti dai paesi africani che ora cercano rifugio su un pianeta che si sta rapidamente riscaldando.

Il mondo ha bisogno di un sistema migratorio internazionale nuovo e più equo che prenda atto della realtà di centinaia di migliaia di individui in difficoltà che fuggono dai conflitti o dalle catastrofi climatiche nelle loro terre, e che investa in generosi programmi di reinsediamento per i più vulnerabili, compresi i bambini. Senza tali cambiamenti, le crisi migratorie di domani saranno ancora più traumatiche e destabilizzanti di quelle di oggi.


Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Foreign Policy, con il titolo “The Next Mediterranean Migration Crisis Will Be Worse”. Traduzione di Monica Fava.

© Riproduzione riservata