Non c’è stata dunque la spallata al sistema, l’invasione dell’estrema destra liberista e post fascista nella politica argentina. Una delusione per Javier Milei il secondo posto nel voto di domenica, ragguardevole per numeri considerando che partiva da zero, ma assai inferiore alle aspettative: l’economista della motosega si giocherà il ballottaggio con il peronista Sergio Massa il prossimo 19 novembre, ma da secondo arrivato: ha preso poco meno del 30 per cento dei voti contro il 36,6 del rivale. Per ribaltare le cose, Milei ha in teoria un bacino enorme di voti di centrodestra cui attingere, più dell’avversario, ma al momento una vittoria finale appare ardua. Perché la tenuta di quelli che lui chiama «ladri comunisti» e «imbroglioni» ha radici profonde, e difficilmente basteranno tre settimane per estirparle.

Ancora una volta l’Argentina ha mostrato domenica la sua unicità. Tranne che per i sondaggi della vigilia: hanno sbagliato in pieno anche qui. Avevano visto il ballottaggio, ma con Milei in buon vantaggio su Massa. Qualcuno addirittura una crescita del “loco” fino alla vittoria al primo turno. Invece è stata la primissima tendenza arrivata dopo la chiusura delle urne, quella della provincia di Buenos Aires, a segnalare che gli argentini non sono pronti a scaricare dal potere gli eterni peronisti. Qui infatti stava vincendo in scioltezza Axel Kicillof, ex ragazzo d’oro del kirchnerismo, al secondo mandato.

La geografia del voto

Nel grande entroterra della capitale vive un argentino su tre, da qui si governa il paese. Dove il peronismo è estremamente radicato, nelle fabbriche, nell’enorme settore pubblico, e i sindacati dividono il potere con i politici che si passano il potere di padre in figlio. Qui vivono di sussidi moltissime famiglie povere. Nella provincia di Buenos Aires gli uomini di Massa hanno spiegato porta a porta nelle ultime settimane cosa sarebbe accaduto se quel pazzo di Milei avesse vinto, decuplicando per esempio i biglietti dei treni, togliendo istruzione e sanità pubblica e molto di più. Questa campagna a favore dello status quo ha anche controbilanciato la marea di scandali che hanno colpito il peronismo nella regione, la figura controversa della matriarca Cristina Kirchner, l’ex presidente nascosta sotto una marea di processi ancora aperti.

L’altra enclave che ha resistito alle sirene del turbocapitalista Milei è proprio l’area metropolitana di Buenos Aires, dove il governo della capitale andrà a Jorge Macri, cugino dell’ex presidente Mauricio. Senza questi due scranni, provincia e capitale, Milei non poteva vincere. Ora ha tre settimane di tempo per provare a ribaltare lo svantaggio su base nazionale. L’anomalia suprema è comunque il voto a Sergio Massa, il ministro dell’economia del governo uscente la cui medaglia sul petto al momento è aver portato l’Argentina al 12 per cento di inflazione al mese, la più alta del pianeta. Alla quale si aggiunge un tasso di povertà del 40 per cento e il dimezzamento del valore del peso sul dollaro in un anno. Come è stato possibile? Con l’arma di sempre del populismo peronista: il radicamento sul territorio e la rassicurazione che garanzie e privilegi, grandi e piccoli, non sarebbero stati tolti. In Argentina – ricordava ieri il quotidiano La Nación – 18,7 milioni di persone ricevono denaro pubblico, tra dipendenti pubblici, pensionati, beneficiari di aiuti sociali. La metà della popolazione. Il settore privato ne impiega soltanto 6,2 milioni.

I rivali di Massa proponevano l’alleggerimento dello stato (Patricia Bullrich) o addirittura la sua distruzione a colpi di motosega (Javier Milei): restar fermo, come a volte accade, è stata la scelta più saggia. Vero che Milei ha usato le armi di massa più moderne della destra, come i social, le fake news, la carica arrabbiata dei giovani nerd, ma l’Argentina non è gli Stati Uniti e nemmeno il Brasile: qui contano ancora tantissimo i rapporti interpersonali, le tradizioni, le chiacchiere al bar, i circoli locali, le reti familiari. È il fascino di questo paese, per molti versi ancorato ai valori del Novecento, che lo rende più ostile ai cambiamenti. Positivi o negativi che siano. Al ristorante Santa Evita, domenica sera, la prime proiezioni sono state accolte cantando la Marcha Peronista, l’inno del movimento degli anni Quaranta, in quale altro posto succederebbe? Al tavolo a fianco due ragazze con meno di trent’anni ammettevano che la loro fede politica è sostanziamente una questione di tradizione, di famiglia.

L’effetto del calcio

Chissà forse persino il trionfo al Mondiale in Qatar ha avuto la sua influenza: l’Argentina vive ancora nella marea di orgoglio e nazionalismo di quelle fulgide giornate di dicembre, e i peronisti sanno bene come cavalcarla. Basti pensare che nel discorso della vittoria, un cinquantenne come Kicillof ha ancora ricordato che «las Malvinas son argentinas», la rivendicazione di quella guerra assurda voluta dai militari della dittatura e finita malissimo. Mentre lungo i muri del quartiere storico della Boca l’indimenticato Diego Maradona ammoniva dai manifesti che lui mai e poi mai avrebbe votato per il “Peruca”, il soprannome che si è dato Milei.

Domenica notte Milei è apparso in tv mogio e trasformato. Ha pensato per un paio d’ore cosa dire, poi l’ha fatto leggendo un appunto senza urlare e senza mai alzare gli occhi. Per tentare di ribaltare il voto sarà costretto a chiederlo a elettori assai lontani dal suo stile e dalle sue intemperanze, per questo ha preferito cominciare subito. Ricordando che due terzi degli argentini hanno votato per mandare i peronisti a casa, e un fronte comune è nelle cose. Nei prossimi giorni si vedrà se la destra (moderata e estrema) si compatterà anche ufficialmente contro il favorito Massa. Anche la terza collocata Bullrich ha lanciato un messaggio dicendo che «non saremo mai complici del populismo in Argentina». A favore di Milei c’è lo scarso successo del partido Justicialista (i peronisti) in molte regioni del paese, il che apre spazio per alleanze locali trasversali.

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