Dopo Roberto Saviano, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni manda a processo anche Domani. I magistrati della procura di Roma hanno chiesto e ottenuto dal giudice delle indagini preliminari il rinvio a giudizio di chi vi scrive e del direttore di questa testata, accusati di aver diffamato la premier in un articolo di un anno fa.

Quello della leader di Fratelli d’Italia è un cambio di passo rispetto ai presidenti del Consiglio che l’hanno preceduta: nonostante inchieste giornalistiche e accuse durissime della stampa d’opposizione, né Giuseppe Conte, né Paolo Gentiloni né Matteo Renzi hanno mai querelato né portato avanti processi contro i media quando sedevano a Palazzo Chigi.

Per un rispetto della libertà di stampa, e per lo squilibrio tra l’enorme influenza di un premier e della sua maggioranza (anche sulle dinamiche della magistratura) e i compiti di controllo democratico che dovrebbero guidare il “ quarto potere”. Meloni sembra invece voler colpirne pochi per educare gli altri. Rispetto alla querelle con Saviano (che in tv ha detto che la Meloni e Salvini erano dei «bastardi», protestando con un insulto contro la linea sui migranti), la vicenda di Domani è più complessa.

Mascherine

L’articolo che Meloni non ha gradito è dell’ottobre del 2021, e dava conto di alcuni verbali di Domenico Arcuri, ex commissario straordinario all’emergenza Covid. Il quale, sentito dai pm romani che lo indagano per abuso d’ufficio in merito alla compravendita di una enorme partita di mascherine dalla Cina, aveva deciso di difendersi.

Facendo nomi di alcuni parlamentari che lo avrebbero contattato per promuovere soggetti o imprese che, a parere dell’ex numero uno di Invitalia, vendevano mascherine a condizioni «largamente meno vantaggiose» di quelle proposte dall’imprenditore Mario Benotti (anche lui indagato). Ai magistrati Arcuri cita l’allora senatore di Forza Italia Massimo Mallegni, il neoeletto senatore di Fratelli d’Italia Lucio Malan, l’ex deputato renziano Mattia Mor. Poi l’ex commissario aggiunge: «L’onorevole Giorgia Meloni il 22 e il 27 marzo è in copia all’offerta di tale Pietrella, per mascherine chirurgiche con richiesta di anticipo del 50 per cento e costo del trasporto a carico del governo italiano». Offerta mai presa in considerazione.

Domani, letto il verbale, cerca di capirci qualcosa di più, e scopre che Meloni aveva telefonato ad Arcuri prima che l’amico mandasse la mail alla struttura commissariale. «Insomma», sintetizziamo nel pezzo, «Arcuri dice a verbale che la leader di Fratelli d’Italia avrebbe raccomandato un’offerta di terzi».

Meloni, il giorno dopo la pubblicazione, annuncia querela contro Domani. Colpevole di aver volutamente «travisato» le dichiarazioni di Arcuri ai pm. Meloni conferma però di averlo davvero chiamato, dopo essere stata contattata da Pietrella. E non nega di essere stata in copia nella mail all’allora commissario. Dov’è la diffamazione? Nella parola “raccomandazione”. «Il famoso amico della Meloni chi è? È il presidente di Confartigianato Moda, cioè delle aziende del tessile, che voleva aiutare», spiega lei.

Agnizione

La querela viene depositata il giorno dopo, a firma di Meloni e del suo avvocato. Cioè l’attuale sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove (anche Meloni, come Berlusconi, ha piazzato a via Arenula i suoi difensori). Meloni spiega come non ci sia esatta corrispondenza tra le parole del verbale e quanto scritto da Domani: «Arcuri non ha mai detto che la sottoscritta abbia “proposto” mascherine o che sia intervenuta per “raccomandare” qualsivoglia imprenditore... dunque non v’è dubbio della massima preordinazione e macchinazione per giungere a un titolo fuorviante e diffamatorio».

Forse Meloni avrebbe preferito la più neutra parola “segnalazione” al sinonimo (leggere il dizionario Devoto-Oli) “raccomandazione”. Parola scelta da chi scrive per un’altra evidenza, mai accennata dalla presidente del Consiglio né nella querela né nella conferenza stampa: Pietrella, colui che vuole parlare con Arcuri proponendo un affare che non si farà mai perché troppo oneroso, non è solo un semplice imprenditore. Ma un uomo vicinissimo a Fratelli d’Italia: Meloni lo aveva candidato nel 2019 alle europee e da un mese è deputato di FdI.

Criticare i politici o usare parole sgradite al potere in Italia è talvolta considerato reato. Non solo da ministri e senatori, ma anche dai magistrati a cui si rivolgono. Finché una legge sulle liti temerarie non verrà approvata, le querele e le cause civili restano spada di Damocle sulla libertà d’informazione del paese. Le scelte della premier e dei giudici romani ce lo ricordano per l’ennesima volta.

 

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