«Italia, a pieno titolo parte dell’Europa, dell’Alleanza atlantica e dell’occidente. Più Italia in Europa, più Europa nel mondo». Così si legge nel primo punto dell’accordo di programma del centrodestra. Una posizione chiara che vorrebbe fugare i dubbi sollevati da più parti sul possibile posizionamento di un nuovo probabile governo a guida Giorgia Meloni.

Il dilemma del centrodestra

Il programma 2022 del centrodestra si apre con la politica estera e non appare un caso. Rassicurare l’Europa e il mondo che, qualora dovessero vincere le destre, l’Italia rimarrà negli ambiti dell’atlantismo e dell’europeismo, seppur con forti esposizioni nazionaliste. Giorgia Meloni ha cominciato a rassicurare sulla stampa estera i partner internazionali. Un nuovo governo di destra a guida Fratelli d’Italia non sarà un salto nel buio.

Tuttavia, gli ostacoli non sono pochi. Il più importante è probabilmente costituito dalla relazione tra il vincolo esterno, ossia il limite all’autonomia decisionale imposto da circostanze esterne ineluttabili, e un elettorato cresciuto molto spesso sulla base di quella che Mattia Ferraresi ha definito su queste pagine «la sindrome della minoranza», ossia sul rifiuto del mainstream, sull’emarginazione del politicamente corretto e sull’essere osteggiati dalle istituzioni.

È chiaro quindi che per Giorgia Meloni si prospetta un classico dilemma, normalizzare pienamente la propria linea politica, facendosi percepire come un elemento affidabile dello scenario europeo, o giocare ancora il ruolo di outsider rinsaldando il consenso del proprio elettorato?

La prima linea avrebbe il vantaggio di non far subire all’Italia (e al suo possibile governo) troppe pressioni dei mercati, stabilire una relazione proficua con Bruxelles, essendo l’Italia il primo ricevente dei fondi del Next Generation Eu, portare in ambito più ampio problemi che sono difficilmente risolvibili su quello interno (i prezzi dell’energia per esempio). La seconda linea ha invece il vantaggio di essere in continuità con la storia “minoritaria” della destra italiana e ha evidenti maggiori prospettive di raccolta di consenso, durante la campagna elettorale e forse anche dopo.

Se osservassimo solo queste prime settimane di campagna elettorale potremmo vedere come Meloni stia cercando di adottare un doppio standard, anti-sistema sulla politica interna italiana, molto più conciliante su quella estera. E tuttavia, una linea di politica estera non si improvvisa e dovrebbe essere delineata all’interno delle forze politiche da lungo tempo. Se è vero, storicamente, che le elezioni non si vincono sulla politica estera, è altrettanto vero che la guerra in Ucraina e le relazioni con la Russia sono un tema altamente polarizzante anche per l’elettorato italiano e potrebbero avere un impatto non secondario.

L’interesse nazionale

L’impressione è che la rapidità dei mutamenti globali non trovi il partito di Meloni completamente preparato. Pochi sono i candidati con un profilo di esperienza sugli esteri, molti sembrano ancorati a un concetto vago e forse antico di “interesse nazionale”. Negli ultimi settant’anni, parlare di interesse nazionale è stato molto difficile in Italia ed è innegabile che la destra sia una delle poche forze politiche ad aver continuato a fare questo riferimento.

Ma è anche vero che, mentre gli altri stati nazione orientavano la propria politica estera al perseguimento dell’interesse nazionale, l’Italia dal 1945 in poi negava tale concetto poiché esso era stato per vent’anni indissolubilmente legato all’interpretazione fascista, orientata prevalentemente al concetto etnico di nazione, al richiamo dei fasti dell’impero romano e concentratasi in un tentativo di conseguire l’egemonia con la forza anche attraverso l’uso strumentale del “nemico esterno”.

È innegabile che il concetto di interesse nazionale abbia una forte connotazione culturale e ideologica; dipende dalla concreta definizione dei suoi contenuti e dalle circostanze storiche. Esso appartiene in buona parte alla geopolitica, e in tempi più recenti alla geoeconomia. Ma come sottolinea l’ambasciatore Massolo su Repubblica, è un concetto ispirato a logiche valoriali e non solamente alla semplice convenienza economica. Paesi come Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti lo hanno ben presente. In questi paesi, non a caso, parlare apertamente dell’interesse nazionale, inteso come espressione del patto sociale e valoriale della nazione in politica estera, non costituisce affatto un tabù, neppure nei partiti di sinistra.

L’Italia ha finito per non affrontare mai la questione di una identificazione e definizione chiara di cosa sia l’interesse nazionale e, pur citandolo spesso, neppure la destra ha lavorato per una sua ridefinizione attuale.

Il concetto è riemerso con prepotenza nella retorica sovranista dell’ultimo quinquennio. Ma l’accezione isolazionista e autarchica non è evidentemente la soluzione per un paese come l’Italia, privo di risorse energetiche proprie e dipendente dalle esportazioni più di altri, solo per citare due caratteristiche importanti. Incolpare l’Europa di tutti i propri malesseri quando, soprattutto grazie alla forza e al coordinamento all’interno dell’Ue si è riusciti a far fronte alla pandemia sul piano sanitario e su quello economico, è un gioco pericoloso. Le recenti misinterpretazioni hanno causato evidenti ed eccessive oscillazioni strategiche tra spinta anti-europeista e slanci filo russi e filo cinesi, mettendo in dubbio il classico incardinamento internazionale ed esponendoci alle nostre debolezze strutturali.

La linea Draghi

Il nuovo possibile governo di destra non può contare su uno scenario internazionale diverso da quello del governo Draghi. La vittoria di un presidente repubblicano negli Stati Uniti, comunque una scommessa, potrà avvenire solo tra più di due anni, un orizzonte temporale molto lungo per qualsiasi governo italiano, anche quelli con una maggioranza ampia. Per questo motivo il dilemma sulla linea di politica estera sarà centrale per comprendere il futuro del governo di Roma.

Se su pressione di alcune componenti della coalizione si lascerà spazio a spinte filo-russe o a ritorni di fiamma post-atlantisti il rischio di un isolamento internazionale aumenterebbe. Le pronte richieste di Matteo Salvini di rivedere le sanzioni con Mosca, così come la mancata candidatura di esponenti leghisti più convintamente europeisti e atlantisti non sono una buona prospettiva in tal senso.

Al contrario, alcune dichiarazioni di Meloni e Guido Crosetto, uno dei fondatori di FdI, per esempio quelle sulla necessità di un tetto del gas europeo o sulla salvaguardia delle aziende italiane da penetrazioni cinesi, fanno invece pensare che l’agenda Draghi possa costituire un buon esempio della linea politica da tenere su questioni di politica estera e sicurezza.

Senza però poterlo dichiarare apertamente. L’impressione è che Draghi abbia contribuito a ridefinire il concetto di interesse nazionale più dei governi politici dell’ultimo decennio e che da questo debba ripartire chi da sempre ne ha fatto una bandiera.

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