Quaranta organizzazioni non governative si sono riunite oggi pomeriggio in piazza Esquilino, a Roma, per chiedere al nuovo governo di non prorogare il memorandum d’intesa Italia-Libia, il documento che regola i rapporti tra i due paesi in tema di politiche migratorie. Alla protesta si sono uniti in questi giorni anche alcuni parlamentari. 

L’accordo firmato nel 2017 dall’allora presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, del Partito democratico, è il frutto di lunghe trattative tra l’allora ministro dell’Interno italiano, Marco Minniti (Pd), e il primo ministro del Governo di riconciliazione nazionale libico, Fayez al-Sarraj.

Il patto si rinnova tacitamente ogni tre anni, come già accaduto nel 2020. La nuova scadenza entro la quale il governo italiano dovrebbe agire se decidesse di abrogarlo è il 2 novembre prossimo. È quello che chiedono cittadini e Ong riuniti oggi a Roma per manifestare. In mancanza di questo intervento le misure sottoscritte nel 2017 saranno estese fino al 2025.

Giorgia Meloni, neoeletta presidente del Consiglio, in passato ha più volte parlato di “pessima gestione” dei rapporti con la Libia da parte del governo italiano. Oggi guida una coalizione di partiti che, almeno in campagna elettorale, ha spesso sostenuto la necessità per l’Italia di riconquistare un ruolo da protagonista nel Mediterraneo. Ma lo scenario più probabile è che sul dossier libico l’esecutivo di centrodestra scelga la linea della continuità con i governi che l’hanno preceduto, sia per ragioni di equilibrio politico interno, sia per gli stretti rapporti commerciali che legano i due paesi.

Il trattato

Il Memorandum “Minniti” è da anni criticato sia nel merito sia nella forma. Concluso in forma semplificata, senza cioè richiedere l’intervento del parlamento, l’accordo violerebbe l’articolo 80 della Costituzione. Lo ha sostenuto fin da subito l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che ricorda come la carta costituzionale imponga la ratifica delle Camere per i trattati internazionali di natura politica o, in altra ipotesi, per trattati che comportano oneri finanziari per lo stato italiano.

E su quest’ultimo punto il dato è incontestabile. A oggi il finanziamento del decreto Missioni, la misura che ogni anno garantisce i fondi necessari per l’applicazione del memorandum, è costato oltre 44 milioni di euro, prelevati dai fondi pubblici. Negli ultimi tre anni, inoltre, la somma stanziata è cresciuta costantemente, dai 10 milioni del 2020, ai 10,5 del 2021, fino quasi a raggiungere i 12 milioni nel 2022. Decisione, quest’ultima, sostenuta da un’ampia maggioranza parlamentare del governo Draghi nel voto del luglio 2021, con 361 favorevoli.

L’accordo si inserisce in un quadro di cooperazione “nel settore dello sviluppo, nella lotta all’immigrazione clandestina, tratta di esseri umani, contrabbando e nel rafforzamento della sicurezza delle frontiere”. Nell’articolo 1 del documento si richiede al governo italiano di promuovere programmi di crescita nelle zone colpite dall’immigrazione clandestina. È un intervento che va oltre la mera “messa in sicurezza” e si estende anche a infrastrutture, sanità, trasporti, energie rinnovabili, insegnamento, formazione del personale e ricerca scientifica.

Ma il centro focale del documento è la questione migratoria, ago della bilancia nei rapporti con la Libia e tema dirimente nell’equilibrio politico interno italiano. Dal 2017 Roma è impegnata nella formazione e nel finanziamento delle istituzioni di sicurezza e militari libiche: guardia di frontiera, guarda costiera del ministero della Difesa libico e altri organi competenti del ministero dell’Interno. Delle sovvenzioni beneficiano poi anche i cosiddetti “centri di accoglienza” libici, che la comunità internazionale ha più volte citato come veri e propri centri di detenzione.

L’Italia si è occupata in questi anni del loro rimodernamento e della formazione del personale in loco. Alla guardia costiera libica spetta, invece, il compito di controllare i confini, «proseguendo negli sforzi mirati anche al rientro dei migranti nei propri paesi d’origine, compreso il rientro volontario».

La comunità internazionale

Non è prevista nel trattato alcuna distinzione tra migranti economici, migranti che si ricongiungono a familiari già espatriati e migranti in cerca di protezione. L’unico distinguo è quello tra immigrazione regolare e irregolare. Pertanto, dal 2017, il governo di Tripoli è impegnato a bloccare chiunque non sia in possesso di regolare documentazione, con il mandato di rimpatriare e trattenere nei centri di detenzione anche donne e uomini che cercano protezione fuori dalla Libia o dal proprio paese di provenienza. Tutto questo avviene in completa violazione della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati.

Tra le rotte migratorie verso e all’interno dell’Europa, quella del Mediterraneo centrale è la più letale. I recenti dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), agenzia collegata alle Nazioni unite, parlano di almeno 2.836 tra morti e dispersi nel 2021. Nello stesso anno la rotta tra Italia e Libia è anche quella in cui si registra il maggior numero di morti legate ai respingimenti: 97.

E chi riesce a sopravvivere finisce a ingrossare le fila dei rimpatriati detenuti nei lager. Oltre 100mila, nella sola Libia, nei primi quattro anni di accordi tra Roma e Tripoli. Qui i prigionieri vivono in condizioni disumane, con regolari episodi di torture e trattamenti degradanti, sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie, stupri e violenze psicologiche.

In un rapporto pubblicato l’11 ottobre scorso, l’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu, Nada al-Nashif, ha riconosciuto che dietro le pratiche di rimpatrio “assistito”, supportate anche dall’Unione europea, si nascondono violenze sistematiche. “La Libia e gli stati coinvolti dovrebbero adottare misure immediate per affrontare urgentemente questa situazione insostenibile e inconcepibile”, si legge nel report.

E in proposito sono innumerevoli le indagini e le testimonianze pubblicate in questi anni da decine di organizzazioni non governative, da Amnesty International, a Actionaid, Human Rights Watch, Medici senza frontiere, Oxfam: tutte presenti alla manifestazione di piazza Esquilino, a Roma, per chiedere al nuovo governo italiano un cambio di direzione che appare, però, estremamente improbabile.

In continuità

Il sostegno della politica italiana all’attuale gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo ha dimostrato, negli anni, di non scontentare quasi nessuno. Da chi rivendica con orgoglio la riduzione degli sbarchi sulle coste italiane, a chi ne fa un discorso di Realpolitik e di contingenza, a chi sposta il carico delle responsabilità sull’Europa. Il dibattito resta contenuto dentro il perimetro di un inevitabile mantenimento dello status quo, con l’obiettivo primario di non compromettere rapporti commerciali irrinunciabili per entrambi i paesi.

A rappresentare l’Italia nel patto con Tripoli, nel 2017, c’era il governo guidato dal Partito democratico, a dare il tacito assenso per il suo rinnovo, nel 2020, è stato il secondo governo Conte, sostenuto dalla maggioranza “giallorossa” di Pd e Movimento 5 stelle. Il governo Draghi, caduto prima di potersi esprimere sulla continuità dell’accordo, si è limitato a garantire “aiuti e sostegno” al paese partner, esprimendo “soddisfazione per quello che la Libia fa, per i salvataggi”. Queste le parole dell’ex presidente del Consiglio Mario Draghi, in occasione di una visita a Tripoli nell’aprile 2021.

La neoeletta premier Giorgia Meloni si trova per le mani il dossier di un paese che gioca un ruolo da protagonista in almeno tre voci della sua agenda: commercio, energia e sicurezza. Il suo desiderio di una nuova centralità dell’Italia nel Mediterraneo sarà probabilmente ridimensionato dalla necessità di mantenere gli equilibri, interni ed esterni. Almeno nella prima fase di governo. Tanto basterà perché il memorandum si rinnovi, continuando a legittimare la mattanza nello spicchio di mare che divide le coste italiane dalle prigioni libiche. E rimandando la questione al governo del 2025.

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