Yascha Mounk: Vorrei incominciare parlando un po’ di relazioni internazionali. Con l’assalto russo dell’Ucraina abbiamo avuto una prima infarinatura dei diversi approcci di politica estera, in parte per via del dibattito tra liberali, realisti e neoconservatori. Mi pare di capire che lei, anche se spesso viene definito neoconservatore, non rientra esattamente in nessuna di queste visioni. Dove si colloca relativamente a queste teorie?

Robert Kagan: Le categorie sono sempre problematiche. Non saprei come definirmi perché penso che la mia visione si radichi nel realismo, nel senso che penso che il potere sia un elemento decisivo degli affari internazionali e politici, e se non si riconosce la struttura comparativa di potere del sistema internazionale, non si capisce perché le nazioni facciano quello che fanno.

Ma il punto in cui credo di prendere le distanze da chi si autodefinisce realista è nel credere che questioni di credo, fede, idee, ideologia, il modo in cui le persone vivono e vogliono vivere, sono potenti almeno quanto le cose più tangibili su cui i realisti tendono a concentrarsi. I realisti ritengono che lo stato nazione abbia una serie di interessi che sono distinti da ciò che le persone di quelle nazioni vogliono.

Penso che questo sia sbagliato e fuorviante. Nessuna nazione è un collettivo unificato. Ogni nazione è un insieme di interessi in competizione e la politica estera è stabilita da qualunque di questi interessi diventi dominante.

Nelle democrazie, ovviamente, c’è una specie di competizione per il controllo della politica estera tra persone i cui interessi contrastano. Fino all’invasione dell’Ucraina, molti conservatori si sono trovati in sintonia con Putin, lo vedevano come un leader cristiano forte e antiliberale, che in qualche modo rappresentava il tipo di nazionalismo che alcuni conservatori vorrebbero vedere in America; cosa che, tra l’altro, era vera anche negli anni Trenta, quando tra i conservatori, in generale, destava molta più preoccupazione il comunismo rispetto al fascismo (in genere, per la verità, a volte i conservatori simpatizzavano di più per il fascismo). E i liberal erano molto più preoccupati dal fascismo e dunque erano più inclini a mostrarsi morbidi con l’Unione sovietica e duri con la Germania nazista.

Non si può comprendere l’esito di un dibattito di politica estera se non si capisce quanto di quel dibattito di politica estera sia effettivamente radicato nel dibattito interno. 

Mounk: Un realista potrebbe pensare che la relativa pace che gli Stati Uniti sono riusciti a mantenere nel mondo dalla fine della Seconda guerra mondiale abbia a che fare con le caratteristiche strutturali della competizione tra i grandi poteri durante il periodo della Guerra fredda, o con una sorta di egemonia unilaterale nei decenni successivi al 1989. La sua spiegazione però pone più enfasi sulla natura del potere americano, se capisco correttamente. Ci spieghi meglio questo. 

Kagan: Per qualche ragione i realisti tendono ad aggrapparsi a un modello multipolare di relazioni internazionali. Penso che, grattando la superficie, si scoprirebbe che le loro circostanze ideali sono simili a quelle del Congresso di Vienna (1814-1815) e di alcuni anni seguenti, quando i diplomatici aristocratici si sono riuniti e hanno organizzato un equilibrio di potere. E c’è una sorta di moralismo nella posizione realista, secondo cui l’unico mondo giusto è un mondo in cui le varie potenze si bilanciano l’una contro l’altra. Altrimenti si hanno egemonia e dominio.

Henry Kissinger ha scritto un libro dal titolo A World Restored. Parla a lungo del Congresso di Vienna. Leggendo la biografia di Kissinger risulta piuttosto chiaro che quella per lui è la situazione ideale. Da lì, lui e altri realisti traggono l’idea che non si può lasciare che l’ideologia interferisca con l’equilibrio stabile di potere che presumibilmente esiste.

Al Congresso di Vienna c’erano paesi non necessariamente in accordo. Gran Bretagna e Austria non condividevano le stesse prospettive politiche o ideologiche. Condividevano però il desiderio di mantenere l’equilibrio di potere.

A rileggere Hans Morgenthau, la più grande paura dei realisti è Napoleone. Napoleone è il grande disastro perché aveva pretese universalistiche, cosa di cui tutti i realisti sono molto sospettosi. Nella loro visione, comunismo e democrazia liberale erano in un certo senso ugualmente messianici e quindi con uguale probabilità avrebbero condotto il mondo alla distruzione.

Non pensavano che rispetto all’Unione sovietica gli Stati Uniti fossero necessariamente meglio, per il fatto che erano una democrazia, per mantenere la pace nel mondo. Per questo i realisti si perdono molte cose.

La cosa che più gli manca è il successo dell’ordine americano. Hanno perso la possibilità di un egemone unilaterale nel mondo, perché non è una teoria. È solo una realtà di geografia, ricchezza e potere, ma si è rivelata una situazione molto stabile, come anche lei ha detto.

I realisti lasciano anche da parte l’elemento chiave di quella stabilità, e cioè che coloro che sono al riparo sotto l’ombrello di sicurezza americano, quelli che prendono parte volontariamente all’ordine liberale guidato dall’America, sono essi stessi liberali. Questa è una cosa fondamentale, perché gli europei, dall’inizio, hanno accolto e persino invitato la potenza americana.

Penso per affinità ideologica. Sapevano che l’America non minaccia le loro libertà fondamentali, mentre l’ascesa di altre grandi potenze, che non condividono questi valori liberali, avrebbe minacciato intrinsecamente i loro valori liberali.

Dunque, è necessario che le circostanze uniche del potere americano siano messe accanto al fatto storicamente insolito di una democrazia liberale universalista, che è anche un egemone globale, e queste due cose insieme creano un insieme di circostanze assolutamente unico, che non si può realmente replicare in altro modo. In un certo senso è anti teoria. È andata così come una serie di avvenimenti storici. Ma è una forza potente, come si è visto.

Mounk: C’è una risposta ovvia a questo, che è: cosa dire di tutti i modi in cui gli Stati Uniti hanno usato il mero potere, spesso in modi moralmente discutibili – dal 1945, con la guerra del Vietnam e l’invasione dell’Iraq – ma anche prima, con la Dottrina Monroe e il controllo degli Stati Uniti sulle Americhe? Come sarebbe il mondo dopo il 1989 se l’America non fosse stata una democrazia?

Kagan: Le cose sarebbero andate peggio, se credi nella democrazia; se non credi nella democrazia, sarebbero andate meglio. La cosa interessante dell’invasione di Putin dell’Ucraina è che riafferma questo. Nel caso della potenza americana, o di qualsiasi altro leader di un ordine mondiale, la domanda è “qual è la vera alternativa?”.

Nessuna persona ragionevole direbbe che gli Stati Uniti si sono comportati in modo impeccabile o con perfetta moralità o coerenza. Siamo soggetti all’ipocrisia e alle decisioni sbagliate e persino a decisioni immorali. Ma se non ci sono gli Stati Uniti in questa posizione, chi ci potrebbe essere? Penso che si tenda a pensare che ci possa essere un bel mondo multipolare e stabile in cui gli Stati Uniti non esercitano la loro gravosa influenza.

Questo deve essere il presupposto, perché altrimenti non si direbbe: “Preferirei trent’anni di conflitto globale all’egemonia americana”. Penso che nessuno sceglierebbe questa opzione a meno che non si trovi a Mosca, Pechino o Teheran. Mi sembra abbastanza chiaro che l’alternativa non è trovare un nuovo ordine stabile, ma leader alquanto aggressivi che intraprendono azioni piuttosto aggressive e violente per rimodellare le cose.

L’alternativa non sarà un meraviglioso sovrano del Diciottesimo secolo; ci saranno Mussolini, Stalin, Hitler, Mao, Xi, Putin. E quando ci renderemo conto che queste sono effettivamente le scelte nell’èra in cui viviamo, sarà un po’ più evidente il fatto che l’egemonia americana, nonostante tutti i suoi numerosi difetti, è pur sempre una situazione migliore, della sua assenza nel mondo reale.

Mounk: Questo arriva al brillante titolo del suo libro The Jungle Grows Back. Cosa significa che la giungla ricresce, e ne è la guerra in Ucraina un esempio?

Kagan: La premessa del libro è che questo ordine democratico liberale, storicamente notevole, che è stato in gran parte in pace in termini di grandi conflitti fra potenze, non è in qualche modo un prodotto dell’evoluzione della specie umana. Non significa che il mondo ha raggiunto una nuova vetta, in un certo senso, che è una classica prospettiva illuminista e liberale.

Negli anni che precedevano la Prima guerra mondiale si credeva questo. C’era il famoso libro di Norman Angell che spiegava come la guerra fosse diventata obsoleta per tutti i tipi di ragioni. Se sappiamo che non è vero, dovremmo capire che la natura stessa del sistema internazionale significa che ci sono poteri insoddisfatti che non si sentono felici nell’ordine mondiale liberale, anche se ne hanno beneficiato in una certa misura.

Voglio dire, la Cina beneficia molto dell’ordine mondiale guidato dagli americani. È stato fantastico per la sicurezza cinese, che ha permesso alla Cina di concentrarsi sulla sua economia. Ovviamente però, il mondo non è stato organizzato in funzione della Cina, perciò non deve stupire – anche se potrebbe essere poco saggio – che la Cina voglia riorganizzare il mondo per il proprio beneficio.

Dobbiamo capire che quelle sono forze naturali, che la giungla cerca sempre di ricrescere e che richiede l’esercizio del potere in una varietà di forme, non solo potere militare, ma potere economico, politico e diplomatico, per tenere sotto controllo quelle forze. Ma gli americani hanno i loro problemi psicologici su come si sentono rispetto al mondo. In generale siamo molto riluttanti a intraprendere un’azione che non ci sia stata in qualche modo imposta da un evento esterno.

In un certo senso, non riconosciamo nemmeno che il nostro grande potere sta influenzando il modo in cui si comportano gli altri paesi, e quindi non siamo pronti per la loro risposta. Se invece fossimo più consapevoli del nostro ruolo, allora penso che avremmo la capacità di essere più consapevoli di ciò che è necessario per ridurre i conflitti. Il problema è che noi, americani in generale, agiamo con il pregiudizio che nulla là fuori al mondo può davvero influenzarci o farci del male. C’è una certa verità in questo, ma ciò di cui non ci rendiamo conto è che nel mondo ci sono cose spaventose e intollerabili. Uno spostamento dell’equilibrio globale del potere dal liberalismo verso l’autocrazia sarebbe dannoso e preoccupante per noi.

Tuttavia gli americani passano molto tempo a ingannarsi su ciò che devono fare e su ciò che vogliono fare, poi si ritrovano a farlo, e di solito nella situazione più svantaggiosa possibile. Se si osserva la storia della Prima e della Seconda guerra mondiale, siamo sempre stati in grado di realizzare quello che serviva fare, ma a un prezzo molto più alto che se fossimo stati impegnati dall’inizio.

Mounk: Un filone del pensiero realista dirà che gli Stati Uniti hanno un rivale economico nella Cina; poi che limitatamente, almeno per quanto riguarda la capacità nucleare, hanno un rivale militare nella Russia. Questo fa abbastanza paura. Ma forse in realtà è una cosa buona, perché torneremo a una specie di nuovo equilibrio di potere in stile Congresso di Vienna.

Ora, possiamo provare a negoziare quell’ordine per essere il più vicino possibile ai nostri interessi. Forse è anche possibile in qualche modo assicurarsi che gli ucraini possano scegliere liberamente il proprio destino. Ma alla fine, dobbiamo solo accettare che esistono sfere di influenza, e pur essendo la nostra sfera importante, Russia, Cina e Stati Uniti dovranno sedersi al tavolo e prendere accordi, e questo è il solo modo in cui potrà funzionare. 

Lei dice che è un errore, perché la giungla ricrescerà e questo avrà conseguenze davvero negative. Quali sono queste conseguenze e qual è l’alternativa?

Kagan: È molto bello parlare di sfere di interesse, tranne se sei uno di quei paesi che vive in quelle sfere. Ciò di cui si parla, ad essere sinceri, è consegnare Giappone, Corea, Sud est asiatico e chissà chi altro al dominio cinese, cosa che, se lo accetteranno, avrà molte implicazioni interne per la politica di quei paesi.

Temo che quando si parla di queste cose, in particolare i realisti, ipotizzano una sorta di transizione graduale in cui questi paesi acquisiscono semplicemente le loro sfere di interesse, e in qualche modo non ci sono vittime di cui dobbiamo preoccuparci e non ci sono pericoli. È una visione molto antistorica.

Quelli che si definivano realisti pensavano che gli Stati Uniti fossero sempre troppo deboli per ottenere una cosa diversa dall’accettare un equilibrio di potere. Henry Kissinger ha predetto che gli Stati Uniti avrebbero dovuto condividere un mondo multipolare perché non avevano la capacità di rimanere egemonici. Ma in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, abbiamo visto quanto sia ancora potente l’ordine mondiale liberale.

Anch’io devo ammettere una certa sorpresa, perché dopo gli anni di Trump, e anche gli anni di Obama, era ragionevole presumere che il tipo di struttura di sicurezza e sistema di alleanze americane si fosse davvero logorato e che i paesi nutrissero reali dubbi sul fatto che gli Stati Uniti fossero ancora in partita. Ma la risposta all’invasione dell’Ucraina è stata davvero notevole al riguardo. Il grado di unanimità tra gli alleati democratici e il grado in cui gli alleati democratici hanno tutti guardato agli Stati Uniti per la leadership essenziale – militarmente ma anche in termini di organizzazione della risposta economica – è la prova che gli Stati Uniti esercitano ancora un’enorme influenza sul sistema internazionale.

Mounk: Passiamo alla situazione politica interna e a un suo saggio molto discusso che ha scritto dopo aver riflettuto sul 6 gennaio, dicendo che gli Stati Uniti vanno ora verso un’autentica crisi costituzionale senza precedenti, che forse avverrà nel 2024 o forse dopo. Cosa la fa preoccupare maggiormente della scena politica americana interna in questo momento?

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Kagan: Ho scritto quell’articolo in realtà prima che si sapesse gran parte di ciò che era successo il 6 gennaio e di certo non avevamo i dettagli che la commissione di inchiesta del 6 gennaio ha portato alla luce.

Ci sono più ragioni per preoccuparsi ora di quante ce ne fossero quando ho scritto quel testo, ma in sostanza quello che volevo dire era innanzitutto: quando si ha la netta maggioranza di un solo partito, che crede o fa finta di credere che l’ultima elezione – rispetto alla quale non c’è mai stato un dubbio di legittimità – sia stata in realtà una truffa, allora ci si trova di fronte a una crisi costituzionale. E dal punto di vista di chi la pensa in questo modo, l’unico problema nelle ultime elezioni è stato che non avessero avuto i loro a contare i voti.

Da allora hanno iniziato a sostituire quante più persone possibile. Gli stati hanno adottato misure per concedere ai legislatori un potere crescente di ribaltare le decisioni dei funzionari elettorali. Contestare un’elezione è sufficiente per gettare gli Stati Uniti in una crisi costituzionale, e letteralmente, perché la Costituzione non ha una risposta a questo problema.

Una delle cose che abbiamo imparato da quando Trump ha preso il potere è che tante cose che gli americani pensavano fossero strutture automatiche nel sistema che si attivano tutte le volte che c’è una minaccia, in realtà non ci sono.

I padri fondatori, per varie ragioni, non sono stati in grado di stabilire un metodo infallibile per prevenire la dittatura con questo mezzo. E di conseguenza, dipende davvero dalle persone. Spetta agli individui, a tutti i livelli della società, dal presidente, al vicepresidente, alla Corte suprema, ai membri del Congresso, fino ai funzionari elettorali volontari (le persone che in un certo senso ci hanno salvato nel 2020).

Purtroppo non so se c’è un rimedio legale o costituzionale per il male che ci affligge. La cosa che mi preoccupa di più è di passare a un periodo in cui, diciamo, due o tre stati che mantengono l’equilibrio del Collegio elettorale sono al loro interno completamente contestati. Si prospettano anche proteste di massa da entrambe le parti. La gente tende sempre più ad andare a queste manifestazioni pesantemente armata.

Ci potremmo trovare nel 2024 in una situazione in cui non c’è una via d’uscita ovvia, e quindi ci ritroveremo con il presidente Biden, o chiunque sarà in carica a quel punto, a dover prendere non si sa quante decisioni extra costituzionali per salvare la nostra democrazia, perché non c’è un rimedio costituzionale.

Mounk: Cosa significherebbe dover ricorrere a misure extra costituzionali per garantire la Costituzione?

Kagan: Ritorno sempre a questo meraviglioso discorso che Daniel Day-Lewis fa nel film Lincoln, che non credo Lincoln abbia necessariamente pronunciato, ma che gli sceneggiatori hanno reso brillantemente. Spiega come la secessione del sud lo abbia praticamente gettato in una terra di nessuno costituzionale. Quando ha preso decisioni sulla liberazione degli schiavi, o su come trattare una secessione, è stato molto franco nel capire che a quel punto stava tracciando il proprio corso.

Essere presidente in una situazione in cui un paio di stati sono irrimediabilmente bloccati dalle manifestazioni per strada, come si fa a uscire da una situazione così? A che punto si può dire “No, ho vinto” o “hanno vinto loro” e finisce così? Dovrà chiamare la guardia nazionale? Oppure l’esercito?

Una volta che si arriva al punto in cui i mezzi prefissati per scegliere un presidente e tutto ciò che ne deriva vanno in fumo, ci si trova davvero in una situazione extracostituzionale. Ciò significa solo che qualunque cosa un presidente faccia in quella situazione, l’altra parte lo accuserà di essere un tiranno, proprio come Lincoln è stato accusato di essere un tiranno, in una certa misura, giustamente. Non voglio che Donald Trump diventi presidente dopo il 2024 perché penso che smantellerà la democrazia americana. Perché non crede nella democrazia americana. Ma ancora prima di avere Trump in carica, ci troveremmo nella crisi di non avere un presidente legittimo. È questo ciò che mi preoccupa.

Mounk: È molto probabile che il candidato repubblicano sarà Donald Trump, o un’altra persona altrettanto disposta a sovvertire elezioni libere ed eque. Se i repubblicani dovessero perdere, cercheranno di fare pressioni sui funzionari locali eletti per sovvertire la certificazione delle elezioni in un posto come l’Arizona, per esempio, o forse un posto come la Georgia, in un modo ancora più estremo di quanto non abbiano fatto nel 2020.

Potrebbero farcela e non c’è un rimedio facile per garantire che Donald Trump o un altro candidato simile non si insedi alla presidenza o almeno non sia in grado di convincere una percentuale molto ampia della popolazione degli Stati Uniti che dovrebbe essere legittimamente insediato come presidente.

Cosa dovrebbe succedere, non solo perché l’America superi in qualche modo i pericoli nel 2024, ma perché passi questo più ampio momento di reale pericolo? Ora mi colpisce che, in un certo senso, la sua risposta potrebbe essere un po’ più fiduciosa della mia. Mi hanno preoccupato l’ascesa del populismo e alcune delle caratteristiche strutturali che lo hanno alimentato. E quindi, mentre certamente riconosco che Donald Trump è un individuo particolarmente pericoloso, sono un po’ scettico sul fatto che se, diciamo, Donald Trump avesse avuto un infarto e fosse morto il mese dopo, il pericolo sarebbe davvero passato. Ma mi sembra che lei abbia un’interpretazione leggermente più personalistica della capacità di Trump di rappresentare questo pericolo.

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Kagan: Penso che Donald Trump abbia una sua unicità e personalmente non sarò mai capace di perdonare i repubblicani che hanno permesso a Donald Trump di essere Donald Trump e che da allora sono stati così codardi nell’affrontarlo. Ma relativamente parlando, sarei felice di avere qualcuno di loro in corsa per la carica invece di Donald Trump. Perché penso che in assenza di Trump, il suo stesso movimento rischierebbe di frantumarsi.

Non credo che ci sia qualcuno che abbia il particolare tipo di carisma che Trump ha e che queste persone trovano così attraente. Penso che in assenza di Trump, probabilmente ci sarebbero tre o quattro pretendenti al trono e probabilmente le cose si dividerebbero. Quindi per me che Trump non ottenga la nomina dovrebbe essere il primo obiettivo di tutti. Ma sfortunatamente, non sono convinto che ci sia un modo per impedirgli di ottenere la nomina. Ora, i repubblicani non trumpiani (non li chiamerò repubblicani anti Trump) stanno cercando di convincersi che Trump è finito. E quindi il loro punto di vista è che alla fine non dobbiamo preoccuparci di Trump.

Non c’è dubbio che negli Stati Uniti ci sia un certo modo in cui le persone percepiscono le cose, in cui si comportano, cosa apprezzano e cosa no: è un problema che esiste a prescindere da Donald Trump. E allora la domanda è: è sempre esistito? C’è qualcosa di nuovo in quello che stiamo vedendo oggi? Penso ragionevolmente di sì. Ma il razzismo non è certo una novità in America. L’ansia bianca non è nuova.

Non ci pensiamo mai, ma gli anni Venti sono stati un periodo molto simile. Allora c’era un’intensa xenofobia, un’intensa anti immigrazione, un’anti scienza nel processo Scopes, l’ascesa del secondo Klan: queste tendenze, credo, sono sempre esistite e sono in qualche modo inscritte all’esperienza americana, purtroppo. Gli anni Trenta sono stati un periodo fertile per un Donald Trump, e i Donald Trump allora erano Father Coughlin e Huey Long. La differenza era che il processo di negoziato al tempo era fatto di accordi a porte chiuse che non avrebbero mai permesso che qualcuno di questi ottenesse la nomination.

Penso che una delle conseguenze della democratizzazione delle primarie repubblicane – cosa di cui i democratici, tra l’altro, si sono curati in una certa misura dopo McGovern – sia stata dare un’opportunità a uno come Trump. La domanda è: qualcuno può galvanizzare quel movimento nello stesso modo in cui lo fa Trump? Migliaia di tedeschi erano d’accordo con quasi tutto ciò che Hitler diceva, ma non erano Hitler. Penso che alcune persone facciano una differenza enorme. Stalin non ha portato nulla di particolarmente nuovo al comunismo a parte la sua personalità e il suo stile. Ted Cruz dice un sacco di cose vergognose. Preferirei quasi chiunque al mondo come presidente al posto di Ted Cruz. Ma non temo Ted Cruz come temo Donald Trump.

Forse è irrazionale da parte mia, o soltanto un mio desiderio, anche se di solito non mi considero uno che si fa illusioni. Penso però che Trump abbia una sua unicità. E per quanto concerne questi altri problemi che esistono indipendentemente da Trump, dobbiamo lavorarci su e dobbiamo combattere quella battaglia. E quella battaglia ora, come possiamo vedere, deve essere combattuta di nuovo, a tutti i livelli della società. Va combattuta nel consiglio scolastico e nel centro locale della comunità. Siamo in uno di quei momenti in cui non possiamo semplicemente aspettare che i nostri rappresentanti eletti risolvano tutto per noi.

Ma ripeto per l’ennesima volta che per me Trump è speciale. E quindi penso che se riusciremo a lasciarci Trump alle spalle, allora sì, ci sarà una possibilità che questo gruppo, che è sempre stato in giro, sarà là fuori a ribollire, gorgogliare e, occasionalmente, dare origine alla traiettoria di qualche politico, ma non sarà il tipo di minaccia globale in cui si è trasformato Trump.

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