Sono previsti eventi e iniziative per ricordare il terzo anniversario della morte di Luca Attanasio. Un podcast (L’ambasciatore straordinario) e un videodocumentario (Broken dream) prodotti dalla Rai, una mostra, vari convegni. A Salerno sarà intitolata al diplomatico una via, a Kinshasa ci saranno una cerimonia nell’ambasciata e una messa celebrata dal cardinal Ambongo, arcivescovo della capitale congolese.

Al di là delle doverose onorificenze, la sensazione che si respira seguendo la tragica vicenda è che con l’allontanarsi della data dell’uccisione del nostro ambasciatore e del carabiniere Vittorio Iacovacci, assieme all’autista congolese Mustapha Milambo, si distanzi anche la verità.

All’indomani dell’agguato consumatosi il 22 febbraio del 2021 durante il viaggio da Goma a Ruthuru, Kivu del Nord, Repubblica Democratica del Congo, dove Attanasio si stava recando per una missione di verifica su un progetto Pam (Programma Alimentare Mondiale), sono partite tre inchieste di tre diverse procure.

Quella di Roma, quella congolese e quella del servizio di sicurezza interno dell’Onu (per eventuali colpe dei funzionari Pam). Sono passati tre anni, si sono conclusi due processi e l’incertezza sulle responsabilità, sui mandanti e sul movente aumentano. Proviamo a riassumere le varie tappe.

La storia processuale

La procura di Roma a novembre del 2022 ha rinviato a giudizio Rocco Leone, all’epoca dei fatti direttore sostituto del Pam Congo, e Mansour Rwagaza, indagati per gravissime omissioni e falsificazioni nell’allestimento della missione rilevate oltre che dai nostri inquirenti, anche dal procedimento del servizio di sicurezza interno dell’Onu.

Le udienze a loro carico si sono concluse la scorsa settimana con il proscioglimento: hanno ottenuto la non processualità a causa dell’immunità diplomatica di cui godono visto che il Pam è un organismo Onu. Sull’esito del processo ha pesato certamente la scelta dello stato italiano di non costituirsi parte civile e il pronunciamento di sostanziale avallo della richiesta di immunità di Stefano Zanini e Valentina Savastano, chiamati come teste in rappresentanza della Farnesina dal procuratore aggiunto Sergio Colaiocco titolare del caso.

Quest’ultimo ha annunciato il ricorso in Cassazione ma le speranze di un ribaltamento della decisione della corte sono minime. Non si farà luce piena, quindi, su una delle questioni più delicate della vicenda. Leone e Rwagaza non saranno processati per fatti acclarati come la falsificazione dei verbali (Attanasio e Iacovacci non risultano nella lista dei componenti la missione) e l’omissione di dovute cautele (il convoglio viaggiava senza scorta e in veicoli non blindati su una delle strade più pericolose d’Africa).

Ma, al di là di queste che possono essere considerate mancanze e distrazioni, per quanto gravissime, non si verificherà neanche se ci siano responsabilità ulteriori a carico dei due. Leone, ad esempio, viaggiava con Attanasio e ha riferito versioni contraddittorie sulla sua sorte al momento dell’agguato: in una sosteneva di essersi salvato perché, claudicante, è rimasto indietro, in un’altra di essersi gettato in un fosso e nascosto nel fango (versione che cozzerebbe col fatto che secondo varie testimonianze, si è presentato all’obitorio subito dopo l’attentato con una camicia bianca intonsa).

Su Rwagaza, poi, testimoni riferiscono che fosse notoriamente corrotto. Sono ombre lugubri sulla loro condotta, di certo non verificate, ma che, senza alcun processo, continuano ad aleggiare.

Perplessità

ANSA

Sul versante congolese, invece, si è concluso ad aprile presso il tribunale militare di Kinshasa con la condanna all’ergastolo, il processo che vedeva alla sbarra cinque uomini accusati di essere gli organizzatori e gli esecutori dell’attentato.

Fin dall’inizio del procedimento, dall’arresto del gruppo, cioè, avvenuto a gennaio 2022, sono emerse tante perplessità. Innanzitutto gli interrogatori eseguiti al momento del fermo sono avvenuti senza gli avvocati. In quell’occasione i sei – poi divenuti cinque perché uno di loro, Mauziko Banyene, è stato linciato a morte dalla folla che lo riteneva un pericoloso bandito dopo essere stato inspiegabilmente rilasciato a luglio scorso – confessarono di aver progettato ed eseguito l’agguato a scopo estorsivo.

In sede processuale, però, tutti hanno dichiarato di essere stati costretti a farlo sotto tortura e uno ha aggiunto che nel giorno dell’agguato si trovava in carcere a Goma (evenienza mai verificata). Sulla somma della presunta estorsione, poi, c’è grande discrepanza tra le stime degli inquirenti congolesi (un milione di dollari) e quella della procura di Roma successiva ai colloqui con i Ros tornati dalla missione a Kinshasa a luglio 2023 (50mila dollari). Diversi, inoltre, risultano totalmente analfabeti e incapaci più che di firmare, di leggere quello che stavano firmando.

«Di scenari simili – spiega a Domani Franco Bordignon, il missionario saveriano residente a Bukavu, Sud Kivu, in stretti rapporti con l’ambasciatore, nella struttura del quale Attanasio ha trascorso tutta la giornata del 20 febbraio 2021 – ne vediamo molti. Si offrono detenuti o criminali comuni come capri espiatori per mettere a tacere questioni molto delicate. Non crediamo assolutamente ai risultati di quel processo anche perché non si fa nessuna menzione di mandanti e movente». Nel frattempo, gli avvocati degli ergastolani sono ricorsi in appello. Non molti, però, si aspettano clamorose variazioni del verdetto.

«Noi siamo straconvinti che non si sia trattato di sequestro a scopo di estorsione – dichiara Salvatore Attanasio, papà di Luca – il bersaglio era proprio lui. È stato un atto terroristico contro l’ambasciatore italiano. La perizia balistica dei nostri legali, inoltre, offre una versione diversa rispetto a quella fatta all’inizio».

Le ricostruzioni, peraltro, si basano in gran parte sulle testimonianze di Leone e Rwagaza, in alcuni casi contraddittorie e, soprattutto, non verificabili. «Basta leggere gli atti – riprende Attanasio – per capire che le ricostruzioni non stanno in piedi. I Ros, poi, si sono dovuti fermare a Kinshasa, a 2000 km di distanza dal luogo dove è successo l’agguato, nessuno ha visto le auto, nessun rilievo balistico. C’è poi un’ulteriore domanda: perché un sequestratore dovrebbe uccidere il sequestrato senza neanche ricavarci un dollaro?».

Un altro filone

Cosa è successo allora quel tragico 22 febbraio? «Le ipotesi sono varie – di nuovo Bordignon - . C’è chi sostiene che Luca avesse dossier su massacri compiuti tra Congo e Rwanda o che era inviso alla mafia locale perché, come altri ambasciatori, si era opposto a ricerche di filoni petroliferi nel Parco del Virunga, c’è chi dice che qualcuno volesse fermare una serie di verifiche che Luca voleva fare sulla gestione dei progetti e dei fondi. Nessuna ipotesi regge da sola, la mia idea è che dentro ci sia un po’ di tutto questo».

«In un contesto di conflitto permanente – gli fa eco Francesco Minisini, all’epoca capo programma Nord Kivu di Aics, Agenzia Italiana Cooperazione e Sviluppo e grande amico – il livello di collusione è altissimo e nutre organizzazioni criminali che piegano l'intera società in un'economia umana di guerra. Contemporaneamente vi giocano livelli e sfere diversi, ciascuno al suo ritmo e col suo movente. Tutto ciò alimenta quelle condizioni nefaste che hanno contribuito in qualche modo all’omicidio di Luca».

C’è un secondo filone di indagine aperto dalla procura di Roma che dovrebbe fare luce sull’esatta dinamica, su mandante e movente. Ma il lavoro dei nostri inquirenti non sarà per niente facile.

Tutto, infatti, deve fare i conti con la nebulosa che avvolge il Congo. I luoghi stessi dell’attentato, le zone attorno a Rutshuru o Masisi, sono talmente inaccessibili che nelle elezioni presidenziali di dicembre, non sono stati allestiti seggi.

In tutta l’area sembra ormai inarrestabile l’avanzata delle famigerate milizie filorwandesi M23 che sta causando morti ed esodi e sta erodendo territorio congolese a favore del Rwanda.

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