Nella serata del 19 luglio è arrivata la notizia dell’uccisione di un elemento del commando che, secondo gli inquirenti congolesi, avrebbe preso parte all’agguato del 22 febbraio 2021 in cui sono stati uccisi il nostro ambasciatore a Kinshasa, Luca Attanasio, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. L’uomo ucciso si chiamava Mauziko Banyene (anche se sul nome non c’è totale certezza), ed è stato linciato dalla folla della zona di Mubambiro, alla periferia di Goma, Kivu del nord, perché considerato un crudele bandito.

Banyene non era tra i cinque detenuti interrogati dai carabinieri dei Ros volati in Congo a inizio luglio perché, non è ancora chiaro sulla base di quale motivazione, era stato rilasciato qualche settimana fa e, a quanto risulta, avrebbe ripreso la sua attività estorsiva nella zona, incurante della polizia e degli abitanti che ne subivano le crudeli gesta.

Gli arresti di gennaio

Questa notizia rende ancora più ingarbugliata la lettura delle indagini sul drammatico agguato del 22 febbraio 2021, i cui progressi sembrano ancora destinati a sollevare dubbi più che ad alimentare certezze.

Aveva per esempio alimentato speranze la notizia che finalmente, dopo reiterate richieste italiane di collaborazione sistematicamente ignorate e due rogatorie cadute nel nulla, i carabinieri del Ros fossero stati invitati a Kinshasa per incontrare i loro colleghi congolesi e interrogare cinque dei sei uomini arrestati a gennaio scorso con l’accusa di essere il commando che ha effettuato l’agguato.

Al loro ritorno, in realtà, in attesa che le carte consegnate ai carabinieri e a disposizione della procura di Roma vengano tradotte dallo swahili, l’entusiasmo iniziale ha lasciato sempre più spazio alle perplessità. Le prime notizie riportate, infatti, darebbero per certa la versione sostenuta dalla magistratura congolese secondo cui i sei arrestati lo scorso gennaio e condotti ammanettati, scalzi, e seduti sul prato davanti al comando di polizia di Goma, sarebbero gli autori di uno dei più gravi attentati mai compiuti nella Repubblica Democratica del Congo.

Il comandante di polizia del Nord Kivu, generale Aba Van Ang, il 18 gennaio, convocata un’improvvisata conferenza stampa, ha dichiarato ai giornalisti presenti che quei sei erano «parte del commando che ha progettato ed eseguito l’agguato del 22 febbraio».

I nostri inquirenti volati in Congo avrebbero acquisito confessioni secondo cui i sei (ci sarebbe un settimo, soprannominato Aspirant, il cui nome sarebbe Amos Mutaka Kiduhaye, che risulta ancora latitante) quella mattina avrebbero atteso il primo convoglio di “bianchi” per eseguire una rapina. Sempre secondo la ricostruzione dei fatti avvenuta grazie ai colloqui con gli inquirenti congolesi e i cinque arrestati e la visione di filmati, il commando avrebbe atteso l’arrivo del convoglio e fermato le due macchine per richiedere una somma di circa 50mila dollari senza sapere che a bordo di uno dei veicoli viaggiava l’ambasciatore italiano.

Ricostruzione dubbia

I dubbi attorno a questa versione sono numerosi. Intanto le confessioni non sono affatto lineari, ci sono state varie ritrattazioni, la più clamorosa delle quali è quella di Marco Prince Nshimimana, che ha ammesso di aver fatto parte del commando ma non, a differenza delle accuse che gli sono state mosse, di essere stato lui a sparare e uccidere Attanasio e Iacovacci.

Dalla lettura delle carte del fascicolo chiuso dal procuratore Colaiocco a febbraio con l’iscrizione nel registro degli indagati dei funzionari del Pam Leone e Rwagaza per «omesse cautele» poi, risultano molte incongruenze rispetto alla ricostruzione presentata dalle autorità congolesi. Secondo le testimonianze raccolte e inserite nelle migliaia di pagine conservate dalla procura di Roma, infatti, risulta innanzitutto che il commando che avrebbe eseguito l’agguato fosse appostato nella zona, con armi adeguate a un’operazione più grande di una semplice rapina, da due giorni e che, un’ora prima circa dell’attentato, sullo stesso tratto di strada viaggiassero altri “bianchi” membri di una ong, che hanno proceduto indisturbati. Come mai non sono stati rapinati da un commando che attendeva qualcuno da rapinare da due giorni? È plausibile poi che un commando bene armato fosse lì appostato da 48 ore per una rapina che gli avrebbe fruttato 50mila dollari?

Lo scontro a fuoco

Ci sono altri punti che suscitano perplessità e che attengono al momento dello scontro a fuoco. Una volta compreso che la somma richiesta non era disponibile, gli attentatori hanno intimato a tutti i componenti di scendere (tra questi anche l’italiano Rocco Leone, dirigente Pam dell’area Congo) e dirigersi verso il vicino parco del Virunga.

Nessuno del convoglio di cui faceva parte Attanasio era armato mentre i ranger del parco, accorsi sul luogo allertati dagli spari, non hanno aperto il fuoco contro gli attentatori. Non si capisce perché il commando a un certo punto ha deciso di sparare e colpire, peraltro, solo Attanasio e Iacovacci (Milambo era già stato ucciso), e non gli altri quattro componenti l’equipaggio, tra cui un “bianco”.

Secondo le perizie balistiche poi, i colpi sarebbero stati sparati dal basso verso l’alto, evenienza che porta a pensare a fuoco aperto da qualcuno appostato a terra che mirava a obiettivi precisi.

«Nulla ci porta a pensare – dichiara una fonte investigativa interna alla procura – che quanto ci dicono gli inquirenti congolesi sia incongruo. Possono esserci dei dubbi, ma non abbiamo elementi di prova che la versione sia contraria al vero. Nel caso di Regeni, ad esempio, ci sono state fornite ricostruzioni assolutamente incongruenti, impossibili. In questo caso, invece, possiamo avere dei dubbi, ma non dire che siano del tutto da escludere, non c’è incompatibilità».

Il fatto che finalmente sia stato concesso ai Ros di andare a Kinshasa e ottenere collaborazione dalle autorità politiche e giudiziarie è sicuramente un fatto positivo che arriva, però, dopo un anno e mezzo di tentativi falliti e indifferenza alle richieste italiane. «È comunque un successo per il nostro paese, per la procura di Roma e per la Farnesina – riprende la fonte – se si considera che la Repubblica Democratica del Congo tende a non collaborare neanche con paesi con cui ha legami storici e più saldi, come il Belgio o la Francia. Non usano proprio rispondere alle rogatorie, l’Italia in qualche modo è riuscita, quindi è un successo frutto dell’attenzione del governo. C’è stato un intervento del presidente Felix Tshisekedi che ha mostrato una precisa volontà di collaborare e condividere i risultati e tutto il materiale probatorio. Quello che ci aspettiamo è di capire se questo materiale raccolto sarà utilizzabile secondo i parametri dell’ordinamento italiano».

Nel frattempo il procuratore di Kinshasa ha promesso di inviare alla procura di Roma «a stretto giro come risposta alle rogatorie tutto il fascicolo delle indagini che ritengono chiuse» e si spera che entro «agosto siano stati tradotti gli atti e che arrivi per vie diplomatiche il fascicolo intero».

Per quanto riguarda il fascicolo chiuso a febbraio scorso da Colaiocco che iscriveva nel registro degli indagati i due dirigenti Pam Leone e Rwagaza per gravissime omissioni nei protocolli e falsificazione di documenti (i due continuano ad appellarsi alla immunità diplomatica), sono state presentate le memorie difensive e la procura conta «di arrivare a decisioni finali subito dopo l’estate: se le memorie ci avranno convinto procederemo all’archiviazione altrimenti ci sarà il rinvio a giudizio».

© Riproduzione riservata