«Non c è futuro senza perdono». Questa la frase – divenuta slogan – con cui Desmond Tutu sintetizzava la sua concezione della commissione verità e riconciliazione in Sudafrica, di cui fu l’anima e il presidente.

Da quel pulpito (una reale catarsi di rigenerazione dopo decenni di odio) l’arcivescovo anglicano curò il suo paese. La sua simpatia umana e il suo volto aperto e sorridente accattivarono molti in giro per il mondo. La sua lotta contro l’odiosa apartheid era iniziata molti anni prima.

Considerato un radicale da una parte della comunità bianca, Tutu si oppose agli estremismi di entrambe le parti. Per questo le sue relazioni con le fazioni nere dentro l’African National Congress (Anc), non furono sempre buone. Si può dire che Tutu sia stato gandhiano e intransigente tutta la vita.

Il percorso

1986 AP

Nato nel 1931 a Klerksdorp da una famiglia povera, seguì i cicli scolastici dei neri per diventare insegnante, laureandosi per corrispondenza all’università del Sudafrica. Dal 1954 iniziò ad insegnare inglese e storia, sposandosi nell’anno successivo. In quello stesso periodo maturò la decisione del sacerdozio.

Fu ordinato nel 1960 e due anni dopo inviato a specializzarsi al King’s College. A Londra per la prima volta si trovò a predicare ad un pubblico totalmente bianco.

Tornato in Sudafrica nel 1967, fu insegnante di greco e antico testamento al seminario e fu nominato cappellano dell’università di Fort Hare ad Alice, Eastern Cape. Quest’ultimo impegno si rivelò decisivo: a contatto con gli studenti, e con il movimento della black consciousness sorto negli anni Sessanta, Tutu maturò la sua originale visione pacifica e intransigente della questione sudafricana, assumendo una notorietà sempre maggiore come promotore della lotta all’apartheid mediante un percorso non violento, che gli valse il Nobel per la pace nel 1984.

Tutu ebbe sempre a che fare con le critiche degli estremisti neri, come accadde poi a Nelson Mandela. Per tutti gli anni Settanta nelle township sudafricane la tensione era alle stelle.

Davanti ai ripetuti massacri, alle torture e alla repressione, molti neri sudafricani erano ormai convinti che l’unica via di uscita fossero le armi. Le voci a favore della non violenza e del negoziato erano poche e deboli.

Tutu si scontrò pubblicamente con i sostenitori della lotta armata, scagliandosi contro l’abominevole pratica del necklace: uccidere i sospettati di collaborare con le autorità dell’apartheid bruciandoli vivi dando fuoco al copertone in cui venivano inseriti (da qui il nome di collana).

A quell’epoca Tutu si inimicò numerosi dirigenti Anc, come per esempio Winnie Mandela, “madrina” di gang antiapartheid violente, divenute più criminali che altro. La dottrina della riconciliazione che fu alla base della commissione era di accordare il perdono a chi, fra gli imputabili di atrocità, avesse pienamente confessato: una forma di riparazione morale nei confronti dei familiari delle vittime.

Ciò fu richiesto in primis ai responsabili dell’apartheid ma poi anche ai membri dell’ala armata dell’Anc. Non tutti in Sudafrica reagirono positivamente: la battaglia per la commissione fu una dura lotta e il vero sostegno giunse solo da Mandela.

Un uomo di fede

AP Photo/J. Scott Applewhite

Desmond Tutu non può essere ridotto a una star politica o un’attivista dei diritti umani e civili: in primo luogo era un teologo e un uomo di preghiera. Chi l’ha conosciuto ne ricorda l’arguto spirito british, la vitalità africana ma soprattutto l’amore per il vangelo, così come la passione per il dialogo ecumenico.

Amico da decenni con la Comunità di Sant’Egidio, la visitò varie volte, inaugurando a Roma nel 1988 la Tenda di Abramo, prima casa per i senza fissa dimora e gli stranieri, dove incontrò Jerry Essan Masslo, il ragazzo sudafricano ucciso l’anno successivo nelle campagne di Villa Literno.

Sostenne per tutta la vita la campagna di Sant’Egidio contro la pena di morte, andando a visitare personalmente un mese prima della sua esecuzione, l’afroamericano Dominique Green, uno dei primi amici condannati alla pena capitale in Texas, le cui  ceneri sono tumulate a Roma.

“Dio non è cristiano”, il titolo del suo ultimo libro, sintetizza bene lo spirito libero e ironico di Tutu: nessuna istituzione – ecclesiastica o politica – potrà mai imbrigliare la libertà spirituale del credente appassionato che lotta per la libertà dell’uomo, come disse in una delle sue ultime predicazioni a Roma: «Senza di noi, Dio non ha occhi; senza di noi, Dio non ha orecchi; senza di noi Dio non ha braccia o mani. Dio conta su di noi».

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