Dopo il susseguirsi, in questi mesi, di più o meno velate richieste di regime change nella Federazione Russa, l’occidente torna a parlare di un cambio ai vertici del Cremlino. Lo fa con le parole del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che in un videomessaggio pubblicato venerdì, si dice pronto a dialogare con la Russia, ma non con il presidente Vladimir Putin che «non sa cosa siano la dignità e l’onestà».

La guerra sul campo

Ieri, un altro video rilanciato dall’ufficio del presidente mostra militari ucraini sventolare la bandiera nazionale alle porte della città di Lyman, dove, secondo il portavoce militare di Kiev Serhii Cherevatyi, sono stati accerchiati almeno cinquemila soldati russi.

La conferma arriva dal ministero della Difesa di Mosca che in una nota annuncia la ritirata dei soldati, ormai quasi completamente circondati. Nella cittadina, considerata lo snodo strategico della Repubblica popolare di Donetsk, dal mese di maggio erano concentrate le forze russe operative nel Donbass.

La conquista militare arriva un giorno dopo il discorso ufficiale con cui Vladimir Putin ha confermato i risultati dei referendum di annessione, che vedrebbero anche la città di Lyman tra i nuovi territori sotto la legislazione russa. Intanto il governatore di Kharkiv, Oleh Syniehubov, parla di 24 civili ucraini uccisi nella regione. Mentre a Zaporizhzhia, capoluogo dell’omonimo oblast, i soldati russi avrebbero arrestato Igor Murashov, direttore generale della centrale nucleare ucraina. Secondo Petro Kotin, presidente della Società energetica statale Energoatom, nel pomeriggio di venerdì le forze russe hanno «bendato e portato via» l’uomo mentre si spostava dalla stazione. Murashov è il principale responsabile della sicurezza nucleare e del livello di radiazioni nell’impianto. «La sua detenzione rappresenta un pericolo per il funzionamento della più grande centrale nucleare europea», ha detto Kotin. Sul proprio canale telegram Energoatom ha lanciato un appello al direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Rafael Grossi, affinché siano intraprese tutte le «azioni immediate possibili» per il rilascio immediato di Murashov. L’agenzia – che dal mese scorso sorveglia la centrale in seguito alla richiesta delle Nazioni Unite di creare una zona smilitarizzata – ha chiesto chiarimenti alle autorità russe.

La questione Nordstream

E mentre sul campo gli equilibri del conflitto cambiano lentamente e in modo confuso, l’altra grande partita continua a giocarsi sul fronte delle forniture energetiche. A sei giorni dalle prime esplosioni registrate nella stazione sismica sull’isola danese di Bornholm, resta ancora difficile attribuire una causa e un colpevole agli enormi danni riportati nei gasdotti Nordstream 1 e 2. Secondo le ricostruzioni, le esplosioni sarebbero avvenute tra i 70 e i 90 metri sotto il livello del mare.

Come il tritolo abbia raggiunto i tubi a simili profondità resta un nodo da sciogliere. Secondo alcuni esperti – citati dal quotidiano britannico Guardian – a piazzare le bombe potrebbero essere stati i robot di manutenzione che operano all’interno della struttura. Una teoria che, se risultasse confermata, suggerirebbe il coinvolgimento di un potere statale nell’attacco, sia per la sua sofisticatezza sia per la portata dell’esplosione. Vladimir Putin ha pubblicamente accusato gli Stati Uniti e i loro alleati di aver fatto saltare in aria gli oleodotti, con l’intenzione di inasprire la crisi mondiale in atto. «Le sanzioni non sono bastate agli anglosassoni: sono passati al sabotaggio». Le parole, indirizzate anche a Washington, sono state pronunciate da Putin durante il discorso per l’annessione dei territori ucraini alla Federazione Russia.

L’astensione cinese

Dopo il rifiuto unanime dei paesi occidentali di riconoscere la validità dei referendum per l’annessione dei territori occupati, Usa e Albania hanno presentato una risoluzione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per condannare la proclamata annessione. Scontata la risposta di Mosca che, sfruttando la regola dell’unanimità, ha posto il veto. Prevedibile, ma non scontata, è stata invece l’astensione della Cina, che si unisce a quella di India, Gabon e Brasile. L’annessione di quattro nuovi territori ucraini occupati rende «quasi impossibile» porre fine alla guerra, ha detto l’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Josep Borrell. Ieri è arrivato anche il no di Israele, che non riconoscerà le annessioni.

Pechino, che resta il principale partner strategico della Russia, nei giorni scorsi si era espresso sui referendum affermando di sostenere «l’integrità territoriale di tutti i paesi». Una dichiarazione diffusamente interpretata come l’esplicita contrarietà della Repubblica popolare alle manovre di Mosca. Ma l’astensione in sede Onu sembrerebbe piuttosto confermare la linea di prudenza e distacco della Cina sulle questioni di politica internazionale che non la coinvolgono direttamente.

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