L’appello dei capi delle chiese cristiane in Terra Santa ha avuto accenti inequivocabili: quest’anno il Natale va celebrato dalle comunità cristiane della regione «rinunciando a qualsiasi attività festiva non necessaria», in segno di lutto e di solidarietà con la popolazione civile di Gaza vittima del conflitto in corso.

Se la guerra sta travolgendo ogni residua speranza di pace e di un futuro diverso per israeliani e palestinesi, anche il ruolo e la presenza delle comunità cristiane sta precipitando in un abisso dal quale sarà difficile risalire.
Forse la sparatoria, messa in atto dai militari israeliani contro la parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza, nella quale sono morte due donne, madre e figlia, sabato 15 dicembre, rappresenta in tal senso uno spartiacque. La dura condanna pubblica dell’episodio da parte del papa, il senso di smarrimento che si leggeva nelle reazioni del parroco di Gaza, padre Gabriel Romanelli, e nel comunicato diffuso dal patriarcato latino di Gerusalemme, segnavano uno dei punti più bassi toccati da molto tempo a questa parte, nei rapporti fra Chiesa di Roma e stato di Israele.
Fra l’altro, lo stesso patriarca, il card. Pizzaballa, inscriveva il sacrificio di Naheda e Samar, in un quadro più ampio che non quello delle vittime “cristiane” del conflitto. «Non voglio fare una tragedia solo per le vittime cristiane» ha detto il cardinale all’agenzia missionaria Asianews, va anzi allargato lo sguardo «su due milioni di persone chiuse dentro» Gaza, dove infuria una guerra scatenata da Israele in risposta all’attacco terrorista di Hamas che «conta già oltre 20mila morti».

«Ecco – ha spiegato Pizzaballa - i nostri morti fanno parte di quelle 20mila e più vittime». In tal modo il patriarca cercava di non cedere al rischio-trappola di contare solo i propri morti, secondo una confessionalizzazione del conflitto utile alle frange estremiste più violente.

Comunità in fuga dai conflitti

Il vice parroco della Sacra Famiglia di Gaza

Certo è che la comunità cristiana presente in Terra Santa, non solo ha avuto una vita difficile come il resto della popolazione araba e israeliana a causa di un conflitto infinito, ma ha anche subito la presenza prima del fondamentalismo di Hamas – che comunque ha cercato di mettere in atto una politica di tolleranza strumentale verso i cristiani – mentre in tempi più recenti se l’è dovuta vedere pure con l’estremismo ebraico e con una politica aggressiva verso le varie attività sociali svolte dalle chiese da parte delle autorità israeliane.

Secondo i dati dell’ufficio statistico israeliano, riportati dal portale Terrasanta.net, nel 2021 i cristiani in Israele erano 185mila persone, pari all’1,9 per cento di tutta la popolazione israeliana.
Un secolo prima, nel 1922, costituivano l’11 per cento della popolazione di tutta la Palestina storica, ma erano 70.429 in tutto.

Nel 2021 gli arabi cristiani vivevano soprattutto a Nazareth, dove erano poco più di 21mila, a Haifa (16.700), Gerusalemme (12.900) e Shefar’am (10.500). Un destino, per altro, quello della fuga e dell’emigrazione a causa delle guerre, condiviso con le comunità cristiane di altri paesi mediorientali; nel 2000 i cristiani in Iraq erano un milione e 100mila, vent’anni dopo, nel 2020, erano scesi a 250 mila. In Siria, nello stesso arco di tempo, sono passati da 1 milione e 600mila a 677mila (dati Ispi).

Nella Striscia di Gaza, dove vivono circa due milioni di palestinesi, «i cristiani – riferisce l’agenzia vaticana Fides  – sono attualmente 1077. Tra questi, i cattolici sono 133. Le scuole del Patriarcato latino e delle Suore del Rosario accolgono 2300 allievi, quasi tutti musulmani. Le Suore di Madre Teresa accudiscono 75 disabili, di cui 50 sono bambini».

Ancora «la pandemia da Covid-19 ha colpito nella Striscia di Gaza circa 60mila persone, e di esse circa 40mila sono state curate dalle squadre di medici e dalle cliniche ambulanti organizzate dalla Caritas».

Cittadini e arabi

EPA

Ma appunto per i cristiani del Medio Oriente, la condivisione di una stessa vicenda storica con il resto della popolazione di fede musulmana o non credente o appartenente ad altra minoranza religiosa, è un fatto decisivo per definire in positivo una chance di sopravvivenza per il futuro, per valorizzare lo stesso significato evangelico del loro “esserci”.

Il gesuita David Neuhaus, professore al Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme, scriveva sulla Civiltà Cattolica nel luglio del 2022, come, in Terra Santa, «I cristiani sono chiamati a impegnarsi nella società civile, apportando contenuti incentrati su valori del Vangelo come giustizia, uguaglianza, pace, perdono e riconciliazione, ma anche chiedendo che venga promossa una realtà civile in cui a definire diritti e doveri sia la cittadinanza piuttosto che l’etnia o la religione».

Cittadinanza è dunque la parola chiave per aprire una breccia di speranza per i cristiani, evitando di cadere da una parte nell’equivoco di essere considerati impropriamente i rappresentanti dell’occidente, quindi un corpo estraneo; dall’altra per non ritrovarsi a servizio del padrone di turno, laico o religioso che sia, il quale, in un determinato momento offre protezione chiedendo in cambio consenso.

In questo senso, cioè quello della proposta di rinnovate forme di cittadinanza, va ricordato, si è mossa la Santa sede negli ultimi anni. Su questa falsariga va infine interpretata anche la differenza fra cristiani d’oriente e cristiani arabi.
«Quella di cristiani d’oriente è un’espressione collegata alla questione d’oriente, cioè al riassetto coloniale successivo al crollo dell’impero ottomano, che poi elimina le loro specificità (loro sono maroniti, caldei ecc.)» dice a Domani Riccardo Cristiano, giornalista esperto di Medio Oriente e autore di diversi studi sul tema. «Nell’insieme però – aggiunge – sono arabi cristiani, visto che già Giovanni Paolo II scrisse con grande visione dopo il sinodo sul Libano: “Vorrei insistere sulla necessità per i cristiani del Libano di mantenere e di rinsaldare i loro legami di solidarietà con il mondo arabo.

Li invito a considerare il loro inserimento nella cultura araba, alla quale tanto hanno contribuito, come un’opportunità privilegiata per condurre, in armonia con gli altri cristiani dei paese arabi, un dialogo autentico e profondo con i credenti dell’islam”. In questo modo la rivendicazione di pari cittadinanza è indiscutibile, come la deconfessionalizzazione delle legislazioni. I paesi appartengono ai loro cittadini, e ognuno di loro ha il diritto e il dovere di contribuire a cambiarlo essendo anche casa sua».

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