Sull’ingombrante sfondo della crisi ucraina si riuniranno a Madrid, tra il 28 e il 30 giugno prossimi, i capi di stato e di governo dei paesi Nato per uno dei vertici che scandiscono periodicamente la vita dell’Alleanza atlantica. Al momento della sua convocazione il vertice era di “ordinaria amministrazione”, sempre che il termine si possa usare per questo incontro, volto a discutere e approvare principalmente il nuovo Concetto strategico che guiderà l’Alleanza per i prossimi dieci/quindici anni adattandone le strutture, le politiche e le aree di attività ai tempi che cambiano.

L’aggressione russa ha evidentemente stravolto l’agenda e costituirà l’argomento principale di discussione assieme alle richieste di adesione presentate da Svezia e Finlandia, anch’essi eventi che contribuiranno a cambiare l’architettura di sicurezza europea e i rapporti di un’Europa sempre più nordica con la Russia.

È naturale ed evidente che la discussione sarà dominata dall’attualità lasciando poco tempo per il dibattito di più ampio respiro sulla futura postura dell’Alleanza; uno sviluppo inevitabile che non consentirà di dare spazio all’approfondimento di un tema che tocca il futuro stesso dell’Alleanza.

La lezione dell’Afghanistan

In questo contesto, le importanti lezioni apprese dall’Afghanistan rischierebbero di andare perse, non fosse che molte di esse sono già incorporate nel Concetto strategico, il quale ribadisce la rilevanza dei tre pilastri fondamentali su cui si basa l’Alleanza (difesa collettiva, sicurezza cooperativa e gestione crisi) affiancando loro i nuovi settori in cui si declina il concetto odierno di sicurezza, e che vanno dal dominio cyber alla resilienza dei nostri sistemi sociali, a quello della sicurezza degli approvvigionamenti, alla sicurezza dello spazio extra atmosferico.

Nel post Afghanistan la Nato, tra le poche organizzazioni a farlo, ha avviato un approfondito esercizio interno di riflessione che si è rivelato al contempo catartico, terapeutico e utile, e i cui risultati sono incorporati nelle nuove direttrici che regoleranno le operazioni di gestione crisi che l’Alleanza intraprenderà in futuro. Nonostante il fatto che l’Alleanza, assieme al resto del mondo, abbia voltato pagina sull’Afghanistan, le lezioni restano e sono utili a calibrare meglio le attività future e a evitare di ripetere gli sbagli afghani, sia politici che militari, che ho approfondito nel mio recente libro L’ultimo aereo da Kabul e che hanno segnato l’intera operazione fino al suo epilogo.

L’Alleanza ha molto da imparare dall’Afghanistan, a partire dal fatto che lo strumento militare da solo non è idoneo ad affrontare e risolvere crisi complesse che vanno ben oltre la sconfitta del nemico o l’eradicazione di una minaccia terroristica per investire aree al di fuori della competenza dei soldati.

Accanto all’indispensabile strumento d’intervento militare va perseguita un’articolata strategia politica – della quale l’operazione militare deve essere solo una parte, per quanto di rilievo estremo –, che sia basata su un chiaro obiettivo e che consenta di giungere al risultato politico per il quale è stato necessario l’uso della forza. Gli obiettivi politici dell’intervento devono essere chiari fin dal suo avvio, a differenza di quanto accaduto in Afghanistan: una volta sconfitto il nemico e/o ristabilito l’ordine, quali sono i passi successivi per evitare che la minaccia si ripresenti?

Una chiara definizione dell’obiettivo politico permette, tra l’altro, anche di definire la strategia d’uscita (quella che in gergo si chiama la “exit strategy”) della forza impiegata, e di avviare la fase di ricostruzione o consolidamento di quelle istituzioni locali che saranno la prima garanzia contro il ripetersi della stessa minaccia nell’area in cui si è intervenuti. Questo piano complessivo in Afghanistan è mancato ed è stato “inventato” man mano che si procedeva, e ciò ha costituito uno dei fattori che ha comportato, una volta sconfitti i talebani, una graduale erosione dell’efficacia della presenza militare alleata con il conseguente degrado della situazione interna che ha favorito il ritorno dell’emirato.

Contesto e priorità

Senza dimenticare le colpe afghane, che sono notevoli anch’esse nell’economia complessiva della sconfitta, altri fattori hanno inciso sul disastro finale, a partire dalla mancanza di unità di intenti tra gli attori internazionali nonostante l’impegno profuso, essendo i loro obiettivi non tutti coincidenti: per gli americani era preminente l’aspetto della guerra al terrore, mentre per gli europei era altrettanto importante quello della costruzione di una società di diritto e di un Afghanistan democratico e più avanzato.

Queste divergenti priorità hanno indebolito il sistema che stavamo creando e che, alla lunga, si è rivelato non sostenibile. Così come si sono rivelate non sostenibili senza assistenza esterna (leggasi americana) le forze armate afghane, costruite traslando verso Kabul il modello in scala ridotta dell’esercito americano mentre l’Afghanistan avrebbe avuto bisogno di una struttura militare tagliata a misura sulle esigenze del paese.

Anche in questo senso l’esperienza afghana ha dimostrato il rilievo che riveste la comprensione del contesto sociale nel quale ci si muove, sia delle istituzioni politiche pre-esistenti che delle consuetudini locali sulle quali occorre costruire per creare le condizioni in cui la popolazione possa percepire in concreto i vantaggi del “nuovo ordine”, sia in termini di stabilità che in quelli di benessere economico. Aspetto, quest’ultimo, trascurato nonostante gli enormi costi del ventennio afghano, nel corso del quale, lo sforzo per favorire l’emergere di un sistema economico equo e stabile è stato marginale.

Il costrutto afghano è stato, infine, minato alla base dalla diffusa corruzione nel paese, che si è nutrita del flusso finanziario ininterrotto dall’esterno e ha corroso sia la credibilità del sistema che quella della nostra azione. Sono aspetti, questi, di cui la Nato non poteva farsi carico, ma che hanno finito per stingere su di essa. Queste lezioni, e altre ancora, sono state recepite dall’Alleanza e l’auspicio è che siano oramai entrate a far parte del suo dna.

Foro politico operativo

Guardando al futuro della Nato in senso più ampio, rimangono da risolvere i problemi strutturali che la caratterizzano, il primo dei quali è lo sbilanciamento assoluto, in termini sia di assetti militari che della volontà di utilizzarli, tra Stati Uniti e Inghilterra da un lato, e il resto dell’Alleanza dall’altro. 

L’annunciato aumento delle spese militari in Europa, per controverso che sia, è necessario non solo per avviare in maniera seria la costruzione di una difesa europea, dopo trent’anni di chiacchiere, ma anche per riequilibrare l’equazione in ambito alleato. La sproporzione militare tra americani ed europei indebolisce fatalmente il peso anche politico di questi ultimi, che a sua volta impedisce un sano confronto politico, da posizioni paritarie, tra le due sponde dell’Atlantico.

Rimane quindi aperto l’aspetto collegato a una graduale trasformazione dell’Alleanza in un vero e proprio foro politico, nel quale un riequilibrio del potere militare possa dare una voce maggiore agli europei nelle faccende della difesa comune e della proiezione di stabilità oltre le nostre frontiere. Una Nato, in sintesi, che diventi un foro politico operativo di riflessione e azione.

Il rafforzamento dell’Europa della difesa è il tassello “abilitante”, ciò che manca per fare della Nato un reale strumento politico militare, e non solo di difesa, per affrontare i tempi complicati che si prospettano, forti di un dibattito aperto tra americani ed europei che possa sfociare in una linea realmente comune e condivisa del rapporto dell’occidente con il resto del mondo. È un’operazione delicata ma necessaria, anche per evitare che l’Alleanza resti un dominio prettamente anglosassone con un contorno di paesi europei che ne seguono la guida; un’operazione che si presenta costosa anche sul piano politico e che farà emergere discrepanze e crepe sia all’interno dell’Europa che tra europei e americani, che andranno spiegate bene alle nostre opinioni pubbliche, sempre pronte a dare la Nato per morta mentre è invece vero il contrario.

Senza un reale foro di concertazione tra alleati che si muovono con pari peso e dignità, le formule politiche e diplomatiche messe in bella copia su carta sulla carta resteranno. 

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