Lo storico dibattito sull’efficacia dell’Onu e dei suoi molteplici organismi nel favorire pace e sviluppo, nella difesa dei diritti e nella promozione di equilibri e progresso, in Africa (e non solo) assume toni drastici.

Nel continente, infatti, emerge con sempre maggiore frequenza quanto la presenza dell’Onu più che inutile stia diventando dannosa. Più che la soluzione, in altre parole, gli organismi delle Nazioni unite inviati a contenere gli effetti dei conflitti, a mantenere fragili processi di pace o a limitare penetrazioni terroristiche, sembrano essere il problema.

L’Africa è il continente che ha il suo interno più missioni di pace di qualsiasi altro. Oggi, più di cinquantamila militari sono dispiegati per le operazioni delle Nazioni unite in Africa e altre decine di migliaia per le missioni a guida regionale nei paesi in cui persistono guerre civili o insurrezioni che destabilizzano intere aree.

Il caso del Congo

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L’ultimo caso eclatante di guai provocati dalle Nazioni unite in termini di tempo, è quello che ha coinvolto la Monusco, la forza di interposizione Onu presente nella Repubblica democratica del Congo dal 1999. Nelle ultime settimane di luglio, in svariate città delle regioni dell’est del paese, si sono svolte manifestazioni di protesta contro i caschi blu accusati non solo di inefficienza, ma anche di complicità nei massacri e nelle tensioni che lacerano l’area da anni.

La popolazione locale mostra da almeno un decennio profonda ostilità verso questo corpo preposto alla protezione dei civili e al contenimento del conflitto, che, a detta di molti, assiste inerme a stragi o, addirittura, è connivente.

Gli effettivi della Monusco, dopo giorni di continue contestazioni che li hanno visti aprire ripetutamente il fuoco sui civili, nella giornata del 31 luglio scorso, secondo le ricostruzioni, hanno sparato e ucciso almeno tre persone e ferito altre 15, a Kasindi, al confine tra Congo e Uganda.

L’episodio va ad aggiungersi a una serie di casi politici di grande frizione col governo che, nella giornata del 3 agosto, ha chiesto alle Nazioni unite di garantire che «il portavoce Monusco nella Repubblica democratica del Congo, Mathias Gillmann, lasci il paese il prima possibile».

Il presidente Félix Tshisekedi ha sfruttato l’occasione degli ultimi avvenimenti per aggirare le accuse di inefficienza dell’esercito regolare nell’arginare le violenze nell’area, e puntare il dito contro Gillmann e la Monusco su cui scarica tutta la colpa del totale fallimento.

Gillmann, oltre che per la condotta dei suoi uomini, paga per alcune frasi pronunciate di recente con le quali ha spiegato l’insuccesso nel contrasto alle famigerate milizie ribelli dell’M23, sostenendo che la Monusco non avrebbe mezzi militari sufficienti.

Peccato che la forza Onu in Congo sia tra le più costose al mondo, con un budget di oltre un miliardo di dollari all’anno e vanti un contingente tra i più consistenti, oltre 20mila uomini a cui è affidata una attrezzatura di prim’ordine, capace a fronteggiare eserciti organizzati.

I traffici illeciti

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Alla rabbia della popolazione del Kivu del nord e del sud e dell’Ituri, determinata dalle stragi, i rapimenti, gli agguati, le violenze che si susseguono a ritmo quotidiano, si aggiungono le dichiarazioni di alcuni missionari raccolte nei mesi scorsi, secondo cui la Monusco sarebbe protagonista di traffici illegali con le milizie locali e di fornitura di armi, e penserebbe maggiormente ai propri interessi che alla pace.

«In Congo si paga l’inefficienza e la connivenza degli stessi organismi Onu  che, ad esempio, utilizzano i mezzi in dotazione per traffico di armi e cobalto», spiega Chiara Castellani, una missionaria laica da oltre 30 anni nel paese. «Agli uomini della Monusco non interessa facilitare la pace perché la guerra è per loro l’occasione di restare e continuare a guadagnare ottimi stipendi», dice padre Gaspare Di Vincenzo, sacerdote comboniano ora a Kinshasa ma con una lunga permanenza nell’est del paese alle spalle.

Per concludere la rapida analisi sugli effetti mefitici di enti dell’Onu in Congo, è doveroso fare un accenno alle gravissime responsabilità di Rocco Leone e Mansour Rwagaza, due dirigenti del Programma Alimentare Mondiale di area, nella strage in cui hanno perso la vita il nostro ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista congolese Mustapha Milambo il 22 febbraio 2021.

Le accuse sono pesanti: omesse cautele nell’organizzazione del viaggio e falsificazione dei protocolli. Molto probabilmente, però, non saranno processati perché, come loro colleghi Onu indagati nel mondo, si appellano all’immunità diplomatica.

Gli abisi in Centrafrica

Un altro paese tribolato in cui la presenza dei caschi blu Onu sembra aggravare la situazione piuttosto che alleviarla, è la Repubblica Centrafricana. Qui la Minusca, giunta come contingente di pace nel 2014 mentre infuriava il conflitto tra fazioni ribelli e governo che ha portato il paese in una permanente emergenza umanitaria, è accusata da anni di abusi sessuali e violenze nei confronti della popolazione.

Nel 2015, gli abusi furono talmente gravi ed evidenti che portarono alle dimissioni del capo missione, il senegalese Babacar Gaye. Un numero significativo di suoi uomini di nazionalità francese, guineana e ciadiana, erano accusati di violenza sessuale nei confronti di minori.

Il cambio al vertice con l’arrivo di Onanga-Anyanga, non portò sostanziali mutamenti di condotta: un anno dopo vengono sollevate nuove accuse circostanziate di abusi su ragazze e violenze sulla popolazione. Le imputazioni continuano in tutti questi anni, e nel settembre del 2021 la stessa Onu ha deciso di ritirare circa 450 caschi blu del Gabon dalla sua forza di interposizione nella Repubblica Centrafricana a seguito di accuse di sfruttamento sessuale e abusi su cui ha aperto un’inchiesta il governo di Libreville, capitale del Gabon.

Qualche mese più tardi, a febbraio scorso, vengono arrestati quattro membri del contingente della missione di pace a Bangui, la capitale del Centrafrica. In questo caso l’accusa muoveva dai vertici dello stato che denunciavano una presunta partecipazione dei quattro militari in un possibile attentato contro il presidente Faustin–Archange Touadéra.

L’episodio resta molto fumoso e le responsabilità tutte da accertare, ma evidenzia l’insofferenza di classi dirigenti africane nei confronti delle forze di interposizione Onu.

L’Amisom, la missione creata dal Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana e autorizzata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite nel 2007 per la Somalia (lo scorso aprile rimpiazzata da Atmis, (African Union Transition Mission in Somalia), ha un pesante curriculum di violazioni e abusi al suo attivo.

Secondo Human Rights Watch, è rea di stupri di massa sulla popolazione civile e di aver messo in atto un modello di sfruttamento che utilizzava il pretesto della distribuzione degli aiuti umanitari, per costringere donne e bambine a prostituirsi. 

Una riforma urgente

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La Unmiss, la missione Onu in sud Sudan, è stata più volte accusata di vendere armi ai ribelli in lotta col governo centrale dal 2013 e di aver fallito nel suo compito di protezione dei civili. La sconfitta è stata addirittura certificata da José Ramos-Horta, presidente del Gruppo di alto livello sulle operazioni di pace delle Nazioni unite che nel giugno del 2017 candidamente ammise: «Abbiamo collettivamente fallito con il popolo del sud Sudan. La comunità «continua a fallire qui e in molte altre situazioni». Anche la Unmis, la forza delle Nazioni unite in Sudan, ha accumulato imputazioni per stupri e omicidi di civili.

Purtroppo l’elenco sarebbe più lungo e articolato di quello fin qui presentato. Nel novero del fallimento sostanziale, in alcuni paesi eclatante, di forze transazionali inviate per proteggere e facilitare pace e sviluppo e salvare vite, va anche aggiunto l’altissimo numero di vittime tra le forze Onu.

Il tutto, dopo anni di disastri e polemiche, fa emergere con sempre più urgenza la necessità di riforma del sistema di peace operations delle Nazioni unite. Le strade di riforma al vaglio sono varie e passano per un maggiore coordinamento Onu/Ua, per un utilizzo di personale più addestrato e specializzato, per un maggior coinvolgimento degli Stati donatori perché il supporto non sia limitato all’erogazione di fondi e, come sostengono ormai da molti anni esperti e studiosi di tutto il mondo, per un maggior coinvolgimento di donne nella leadership, nella gestione delle operazioni di peace keeping e building e nelle forze militari.

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