La preoccupazione per le voci sulla presunta presenza di cellule jihadiste kosovare rilancia di tanto in tanto l’allarme sull’area dei Balcani, finiti da qualche anno in un cono d’ombra dopo essere stati per oltre un decennio sotto i fari dei media durante le guerre della ex Jugoslavia degli anni Novanta. A causa dei fragili equilibrismi degli accordi di Dayton del 1995, come via d’uscita definitiva era stato previsto un lento ma inesorabile avvicinamento all’Unione europea. Si pensava che l’Europa fosse il destino naturale dei nuovi stati sorti dal conflitto. Tale prospettiva resta auspicabile, grazie al potere moderatore dell’attrazione europea, ma si è allontanato in maniera preoccupante, aprendo la strada a pericolose avventure.

Incertezze globali

Le positive evoluzioni politiche in Serbia, dove anche i nazionalisti stanno cambiando pelle, o in Albania, dove l’aspettativa di adesione permette di stabilizzare il quadro politico ogni volta che sale la tensione, non sono bastate a formare nei 27 quell’unanimità di intenti che serve per finalizzare i processi di adesione. Pesano le incertezze del quadro globale, la Brexit e le difficoltà degli attuali stati membri a intendersi in questa fase di reazione alla pandemia da covid.

Sul terreno le micce accese sono ancora numerose e le conseguenze dei vecchi conflitti tuttora gravi. In Macedonia del nord va tenuta sotto controllo la penetrazione islamista che non rappresenta un fatto nuovo, vista anche la cospicua minoranza albanese e musulmana del paese (il 25 per cento). Nel 2001 la sollevazione nella valle di Preshevo con scontri armati ha avuto come propellente più la questione albanese che non quella islamica. Il protagonista fu l’Uck (esercito di liberazione del Kosovo) sezione macedone, che tentò il colpo riuscito ai fratelli d’arme kosovari. Il risultato fu un fallimento con almeno mille morti lasciati sul terreno. Di quei fatti resta una scia di odio e di striscianti polemiche in seno alla comunità albanese. Successivamente, nella zona di Tetovo l’intelligence ha individuato alcuni gruppi di islamisti a tendenza radicale, da cui si teme potrebbe scaturire la penetrazione del salafismo. Per i predicatori dell’odio jihadista il terreno è fertile tra aspirazioni regionaliste all’indipendenza mai sopite e conseguenze delle crisi economiche che hanno impoverito il paese con un impatto negativo soprattutto tra i giovani. Da tempo i partiti albanesi moderati, in coalizione con le forze politiche della maggioranza slava, vengono criticati e attaccati all’interno della loro stessa comunità di riferimento, accusati di troppe concessioni o compromessi. Negli ultimi anni la tensione si è allentata ma è sempre presente il timore che i lealisti siano scavalcati dagli estremisti, trovandosi in un’impasse politica che non permetta loro di giocare il ruolo di ammortizzatori regionali. Di conseguenza le possibili manipolazioni tra estremismo islamico e nazionalismo sono da tenere sotto osservazione. In tale contesto non stupisce che alcuni albanesi macedoni possano deviare verso il jihadismo (se ne sono trovati alcuni nell’Isis come foreign fighters) viste le numerose ambiguità e la porosità delle frontiere ideologico-religiose nell’area.

Il sogno della Grande Albania

In Albania, tradizionalmente non contagiata dai predicatori radicali, qualcuno sogna ancora la “grande Albania” che la riunirebbe ai kosovari e ai macedoni. Ma il mondo politico di Tirana è molto attento: sia i socialisti del premier Edi Ramaj che i democratici di Lulzim Basha sanno bene che una delle condizioni per entrare nella Ue è dare prova di affidabilità e ragionevolezza. Chi mai accetterebbe in Europa un ulteriore cambiamento dei confini, così difficoltosamente stabiliti? Ogni provocazione è quindi bandita dalla narrazione politica ufficiale, anche se di tanto in tanto i leader si lasciano sfuggire qualche parola di troppo. Ufficialmente a Tirana l’accento ufficiale è posto sulla convivenza tra le religioni, uno dei punti di orgoglio degli albanesi.

In Kosovo la situazione è diversa. Innanzitutto la propaganda sulla riunificazione tra albanesi è paradossalmente molto meno forte. Lo stesso Ibrahim Rugova, padre dell’indipendenza kosovara, soleva dire a riguardo degli albanesi di Tirana: «Fratelli sì, ma ognuno a casa propria». I kosovari si sentono più albanesi degli altri: creatori della lingua e fondatori della cultura, pesano di non aver nulla da invidiare ad altri in quanto ad albanesità. Resta che la guerra coi serbi – incluso l’intervento della Nato e la fuga verso la regione di Scutari - hanno marcato l’intera società e mutato gli equilibri sociali e politici del neo-stato (ancora non riconosciuto da tutti i membri dell’Ue). Da sonnolenta regione rurale che viveva di traffici e contrabbando, il Kosovo è divenuto crocevia di organizzazioni criminali, triste eredità della guerra e dell’estremismo. Siamo lontani dalla “Dardania” sognata da Rugova – detto il Gandhi dei Balcani – con le riconciliazioni pubbliche tra clan e famiglie, e la richiesta di convivenza coi serbi, anche se in un quadro di sovranità. Le ferite della guerra non sono completamente guarite, producendo tensioni politiche continue, come dimostra il recente deferimento al tribunale dell’Aja di Haschim Thaci, ex presidente e primo leader dell’Uck durante a guerra degli anni Novanta.

I rifugiati dalla Siria

A tale fragile quadro si è aggiunta la nuova sfida dell’afflusso di rifugiati provenienti dalla Siria attraversano il cosiddetto corridoio balcanico. Da quando le frontiere dell’Ungheria e della Croazia sono chiuse, molti rifugiati restano intrappolati in quest’area, creando un ulteriore problema, soprattutto in Macedonia e in Serbia. L’Europa deve porvi attenzione: velocizzare i processi di adesione è l’unico modo per stabilizzare definitivamente una regione che ha bisogno di un quadro di legalità e sicurezza internazionale. Per tali ragioni la frenata francese al Consiglio europeo sul complesso dei processi di integrazione è stata percepita come un messaggio di disinteresse europeo che non potrà che avere conseguenze negative.

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