Il 2 novembre nella città di New York si gioca una partita già vinta. Quella per l’elezione del nuovo sindaco che da gennaio sostituirà Bill de Blasio al termine del suo secondo mandato.

La vittoria è in mano al democratico Eric Adams, ex poliziotto e attuale presidente del borough di Brooklyn. New York dovrebbe così eleggere il secondo sindaco afroamercano della sua storia (il primo fu David Dinkins).

Adams ha vinto le primarie con scarso margine contro candidati più progressisti, conquistando la fiducia dei newyorchesi su un tema decisivo: la lotta alla criminalità e la sicurezza nelle strade.

Non a caso anche il suo avversario, il repubblicano Curtis Sliwa, ha un notevole curriculum su questo fronte. Negli anni Settanta, quando a New York faceva paura anche prendere la metropolitana, Sliwa aveva fondato un’organizzazione di vigilanti volontari, i guardian angels, attiva ancora oggi.

Gli “angeli custodi” si contraddistinguono con un berretto di panno rosso, lo stesso che Sliwa indossa sempre al punto di assumere a volte un aspetto macchiettistico, in linea con una vita rocambolesca da attivista segnata da più di 70 arresti di cui va fiero.

Il candidato repubblicano Curtis Sliwa (Eduardo Munoz/Pool Photo via AP)

Wild card

Il favorito, Adams, si presenta in modo più composto, sulla scia di un passato in divisa blu, la passione per la meditazione e un’attenta dieta vegana. Eppure la forma che potrebbe prendere la sua amministrazione appare come un’enorme incognita.

Adams è una “wild card”, una carta imprevedibile, come lo definisce il New York Times. A perplimere diversi analisti e commentatori sono una serie di elementi che rendono difficile capire chi davvero sia, nonostante lui stesso abbia basato gran parte della propaganda di questi mesi proprio sul racconto della sua storia. Anche perché nella costruzione della narrazione ha più volte cambiato versioni, fino a citare episodi accaduti a terzi come se fossero personali. 

Emblematica è stata la difficoltà a dimostrare quale fosse la sua reale residenza. Secondo quanto emerso da indagini condotte da varie testate tra cui Politico, la documentazione legata alla situazione immobiliare di Adams sarebbe confusa e contrastante con altri dati e testimonianze. Possiede una tipica brownstone nel quartiere di Bedford-Stuyvesant, ma diversi vicini sostengono di non averlo mai saputo, mentre un’altra persona è risultata residente nel suo stesso appartamento.

Nei mesi della pandemia ha dormito abitualmente nella sede del borough di Brooklyn, ovvero nel suo ufficio, ed è co-proprietario anche di un appartamento in New Jersey dove vive la sua compagna. Sulla relazione con lei, e su suo figlio Jordan di 26 anni, mantiene il totale riserbo. «Sono io che ho messo la firma per fare questa vita» ha chiarito proteggendoli dai riflettori. 

Un passato difficile

Adams non nasconde di aver desiderato a lungo di diventare sindaco, avanzando nella carriera in modo strategico e lungimirante. Come molti newyorchesi – si legge sul sito della sua campagna elettorale – «è cresciuto in una situazione difficile e l’ha superata».

Nato a Brooklyn 61 anni fa, cresciuto nel Queens con una madre single che svolgeva lavori duri e precari, Adams ricorda un’infanzia vissuta in povertà, in una casa infestata dai ratti.

L’adolescenza non prometteva nulla di buono: a 15 anni entrò a far parte di una gang insieme a uno dei suoi cinque fratelli, con il quale racconta di essere stato arrestato e pestato dalla polizia.

È proprio subendo questo tipo di violenza che avrebbe deciso di diventare lui stesso poliziotto, per cambiare le cose da dentro. 

Negli oltre vent’anni di carriera nel corpo di polizia di cui è diventato anche capitano, ha fondato il gruppo 100 Blacks in Law Enforcement Who Care con l’intento di migliorare la fiducia tra cittadini e forze dell’ordine. È a questa linea sottile che separa l’ Adams adolescente picchiato in uno scantinato e l’Adams in divisa a cui si aggrappano i newyorchesi speranzosi in una vera riforma del corpo di polizia, pur mantenendo una certa sicurezza.

Dopo una parentesi di qualche anno nei registri del partito Repubblicano, nel 2006 Adams è entrato attivamente in politica, eletto senatore dello stato di New York per il partito democratico. Terminato l’incarico è diventato presidente del borough di Brooklyn, ruolo che ricopre tuttora.

È vegano da cinque anni, da quando ha deciso di abbandonare hamburger e patatine per guarire da una forma di diabete di tipo 2, a causa della quale racconta di essersi svegliato una mattina non vedente. Di questa scelta ne ha fatto una missione, impegnandosi a promuovere e diffondere l’alimentazione a base vegetale. 

Insomma Adams strizza gli occhi in tutte le direzioni, inclusa quella dei miliardari che lo appoggiano e hanno finanziato la sua campagna, sia di parte democratica sia repubblicana.

Un impatto concreto

«I am you», sono te/voi, dice ai suoi elettori, giocando con gli specchi. Invece, a differenza di tutti gli altri, deve prepararsi a diventare il sindaco più potente negli Stati Uniti. E il suo piano è a detta di molti poco chiaro.

Mentre Bill de Blasio, come altri suoi predecessori, aveva fin da subito fissato un obiettivo per il quale essere ricordato – l’estensione del programma pubblico di asili nidi – Adams ha messo in pentola tutte le questioni più calde del momento, dal cambiamento climatico alla salute mentale, passando per diritto alla casa e sicurezza.

Per questo il New York Times nel suo endorsement ha colto l’occasione per ordinare le idee in una “to do list”, una lista delle cose da fare.

Non sottovalutando che nel pentolone c’è anche la promozione della cucina vegana in scuole, ospedali e carceri. Ad alcuni, nota il Times, sembrerà un dettaglio ma forse Adams avrà un impatto sulla vita quotidiana dei newyorchesi più concreto di altri.  

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