In un certo senso, stiamo parlando di una notizia epocale, almeno per quanto riguarda l’editoria. Il New York Times ha siglato il suo primo accordo di licenza di contenuti editoriali per l’intelligenza artificiale, e lo ha fatto con Amazon, uno dei più grandi colossi mondiali (il cui fondatore, nel frattempo, è diventato editore acquistando il Washington Post).

Significa che il giornale più prestigioso al mondo, simbolo stesso della tradizione, si è arreso al dominio dell’intelligenza artificiale? Oppure, guardandola da un altro punto di vista, ha scelto di non subire il progresso, ma di trarne almeno un vantaggio economico. In altre parole: se questa è la direzione in cui sta andando il mondo, tanto vale esserne parte, ma alle proprie condizioni.

I termini finanziari dell’accordo non sono stati resi noti, ma è facile intuire il peso della cifra in ballo: «Scommetto che l’entità dell’accordo sia stata un fattore determinante per rendere Amazon un partner interessante dal punto di vista del New York Times», ha dichiarato Michael G. Bennet, esperto di intelligenza artificiale all’Università di Chicago.

Anche perché questa svolta arriva dopo un periodo di tensioni legali. Nel 2023, il New York Times aveva infatti denunciato OpenAi (casa madre di ChatGpt) e Microsoft, accusandole di aver utilizzato “milioni di articoli” del giornale per addestrare i loro algoritmi, senza autorizzazione e senza alcun compenso.

Nella denuncia, si parlava anche di possibili danni reputazionali: è accaduto che Chatgpt generasse risposte inventate, le cosiddette “allucinazioni”, attribuendone falsamente la fonte proprio agli articoli del New York Times.

I soliti dubbi

Dal 2023 a oggi il panorama è cambiato rapidamente. Il progresso dell’intelligenza artificiale è stato non solo velocissimo, ma anche frammentato. ChatGpt rimane il simbolo di questa tecnologia e parte da una posizione di assoluto dominio, ma l’intelligenza artificiale si è diffusa ovunque. I colossi del settore, per restare competitivi, hanno tutto l’interesse a siglare nuovi accordi con gli editori.

Quel che resta fondamentale è l’accesso ai contenuti di qualità, indispensabili per addestrare gli algoritmi, che poi saranno comunque in grado di perfezionarsi in autonomia. Non è un caso se OpenAi ha già stretto accordi con diversi gruppi editoriali per prevenire ulteriori azioni legali.

Tra questi, News Corp (proprietaria di testate come Wall Street Journal, Times of London e New York Post), Axel Springer (editore di Business Insider e Politico), Financial Times, Le Monde, El País e Condé Nast (The New Yorker, Vogue, Wired e altre).

Resta però la stessa domanda, che è facile sentire nelle riunioni delle redazioni: questi accordi restituiscono davvero valore e prestigio ai giornali, che vengono citati nelle risposte fornite dall’intelligenza artificiale? O, al contrario, non rischiano di alimentare un nuovo modo di fare informazione, destinato a rendere superflui i giornali stessi?

È una domanda di stretta attualità, ma sotto altre forme si ripete fin dai primi tempi di Internet. È lo stesso interrogativo che si pongono i giornali sui social: perché dovrebbero offrire gratuitamente i propri contenuti su piattaforme come Instagram?

Pro e contro

La risposta è sempre la stessa, anche se non tutti ne sono convinti: perché queste tecnologie esistono, e chi non partecipa rischia semplicemente di subirle. Se il pubblico è lì, va comunque raggiunto.

La motivazione economica rimane la leva principale: si cerca di compensare almeno in parte le perdite dovute al calo di abbonati e pubblicità. Ma c’è anche dell’altro.

Negli accordi con OpenAi, gli editori hanno ad esempio ottenuto anche un supporto tecnologico, come l’accesso a nuovi strumenti di intelligenza artificiale da integrare nei prodotti editoriali o direttamente nelle redazioni, per facilitare il lavoro dei giornalisti.

Infine, c’è l’obiettivo di intercettare un pubblico nuovo. Gli accordi prevedono che nelle risposte fornite agli utenti sia citata la fonte originale, con tanto di link. La speranza è di generare così nuovo traffico verso i siti editoriali, proprio a partire dalle piattaforme di intelligenza artificiale.

È sicuramente vero, ma ci sono anche dei problemi. Gli editori stanno accettando così di perdere una parte di controllo su ciò che producono. E, per accordi apparentemente vantaggiosi, rischiano di rinunciare ad altri ricavi. È vero che le piattaforme di intelligenza artificiale hanno bisogno dei contenuti dei giornali, ma il rischio è che si sia ormai già raggiunto un ribaltamento dei rapporti di forza. Ora sembra che siano i giornali ad aver bisogno di ChatGpt per sopravvivere.

Con un’ulteriore minaccia: che questi accordi rimangano appannaggio di pochi grandi colossi – come appunto il New York Times e Amazon – mentre le piccole testate, che tengono viva la pluralità dell’informazione, finiscano per sparire nel silenzio, mentre il mondo resta ipnotizzato dal caos degli algoritmi.

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