Il golpe in Niger rilancia la questione del futuro della Nato. Già durante il vertice di Vilnius in Lituania, gli occidentali si sono posti la domanda se, oltre che la proiezione verso il Pacifico per contenere la Cina, sia necessaria una “Nato africana” in funzione anti-russa e/o anti-Wagner. Interessata a rafforzare le politiche anti-migratorie, l’Italia sostiene tale iniziativa.

Tuttavia i nostri partner considerano le migrazioni residuali rispetto alle sfide strategiche che il putsch nigerino mette in luce. Basta guardare una cartina geografica per rendesi conto come stia maturando un’area contrapposta all’occidente che va dal golfo di Guinea fino al centrafrica.

L’emersione di questa “Africa alternativa” (Guinea, Mali, Burkina, Libia, Niger, Repubblica Centrafricana) potrebbe rapidamente collegarsi ad altre zone turbolente (Sudan, Etiopia) o a paesi come l’Eritrea. I n alcuni casi vi sono i russi; in altri prevale il rischio della destabilizzazione jihadista; in altri ancora vige da tempo un ombroso nazionalismo. Ciò che conta è che il continente appare sempre più fuori dal controllo del cosiddetto occidente collettivo, come lo chiamano a Mosca.

Sfere d’influenza

Non si tratta di un’assoluta novità: basti ricordare le antiche alleanze sovietiche con il Corno d’Africa, la Guinea, l’Angola e così via. Ma a quell’epoca l’occidente possedeva gli strumenti per contrastare la penetrazione del blocco dell’est. In particolare gli Stati Uniti avevano appaltato alla Francia il controllo del continente (salvo un ruolo minore di Londra), tanto che Parigi era riuscita a mantenere dalla parte dell’occidente anche paesi francofoni finiti in mano a partiti comunisti, come il Benin di Mathieu Kerekou (quello che mostrò il pugno chiuso accanto a Giovanni Paolo II) o il Congo Brazzaville.

Il problema è che ora tale modello non funziona più: suscitare colpi di stato o addirittura interventi armati non è più consentito, almeno alla Francia. Da qui l’esigenza di una nuova forma di garanzia armata allo scopo di difendere gli alleati e le élite filo-occidentali. È questa l’idea prevalente in seno all’alleanza atlantica oggi.

Com’è noto la guerra russo-ucraina ha rilanciato la Nato, fino a poco prima considerata in crisi e obsoleta. Oggi sembra che l’occidente non veda altra soluzione ai problemi della stabilità globale, se non quella di compattarsi affidandosi alla propria alleanza militare.

Il cambiamento della guerra

Con l’aggressione russa a Kiev tutto è cambiato: nemmeno la sfida jihadista, seppur allarmante, è riuscita a provocare un tale arroccamento occidentale. Per quanto riguarda l’Africa, si pensa di sperimentare nuove forme di sostegno militare in favore dei governi democratici, soprattutto se vicini alle posizioni occidentali.

Per ottenere questo sono necessarie due condizioni: stabilire una presenza militare sul continente e stringere alleanze operative con le regionali africane, inclusa l’Unione africana stessa. Nel primo caso l’occidente può contare su alcune basi ma la situazione è fluida: i francesi perdono piede ma anche gli americani non sono riusciti a trovare un paese africano disposto a accogliere il comando Usa Africom, attivato nel 2008 e ancora basato a Stoccarda.

Per ciò che riguarda le regionali africane siamo agli inizi di un rapporto che è tutto da costruire, anche se indispensabile perché non è più pensabile un intervento militare sul continente senza la compartecipazione africana. In queste ore la regionale occidentale (Ecowas) sta dibattendo sulla possibilità di un intervento in Niger: se ciò avverrà ci sarà bisogno della logistica occidentale. Da alleanza difensiva la Nato assume i contorni di una coalizione militare globale, iniziando con l’Asia. L’occidente è consapevole che la guerra in Ucraina funge da prova generale per il confronto strategico con la Cina. Dopo anni di status quo, le tensioni davanti a Taiwan si sono riaccese.

Limitare l’accesso di Pechino alle tecnologie strategiche e promuovere l’industria degli armamenti occidentali sono divenute priorità europee oltre che americane, anche se una vera e propria rottura del commercio euro-cinese è tuttora difficile da immaginare. Quad e Aukus formano già un embrione di alleanza militare indo-pacifica che assomiglia sempre più ad una “Nato asiatica”, spauracchio per Pechino.

Washington cerca di coinvolgere l’India in tale strategia anche se Nuova Delhi per il momento resta in bilico. Alla vigilia di una visita a Washington di fine giugno, il ministro della Difesa tedesco ha parlato di «responsabilità europea per l’Indo-Pacifico» e dell’importanza dell’ordine internazionale «basato su regole» nel mar Cinese meridionale.

Le mosse di Pechino

La Cina si sente messa alle strette e lamenta di non aver la medesima possibilità di accesso all’oceano che viene data agli americani. L’elezione nelle Filippine di “BongBong” Marcos –figlio dell’ex dittatore – ha riallineato il paese sugli Usa dopo le tentazioni filocinesi dell’amministrazione Duterte. Washington offre aiuti e propone basi navali ai paesi che hanno dispute territoriali con Pechino (Vietnam, Filippine, Malesia, Indonesia e Brunei). I grandi paesi dell’Asean, tutti membri della via della seta, hanno anche aderito all’Indo Pacific economic framework per allinearsi sulle strategie americane.

L’idea è di ridurre al minimo l’interscambio con la Cina, ereditandone le catene di valore, in linea con il friendshoring cioè il trasferimento delle produzioni in paesi amici. Dopo aver molto investito all’estero, Pechino si trova ora in una situazione delicata: la disoccupazione giovanile ha superato il 20 per cento e ogni rallentamento del commercio internazionale è percepito come un rischio reale per la sostenibilità economica.

Per tale motivo i cinesi in primo luogo continuano a sostenere la globalizzazione, cercando di trattenere gli stati amici all’interno della rete di cooperazione commerciale della via della seta. In secondo luogo la Cina cerca l’affermazione di scenari alternativi che possano competere con l’occidente, come i Brics, il trattato di Shanghai e nuove vie commerciali. Una Russia in guerra vorrebbe uno schieramento più deciso da parte di Pechino, in decoupling totale con l’occidente.

Per questo vende sempre più idrocarburi a cinesi, indiani e altri emergenti del global south, a prezzi stracciati (spesso rivenduti agli stessi occidentali con maggiorazione). Ma la Cina non vuole distruggere il sistema multilaterale e resta scettica di fronte al sovranismo anti-occidentale russo. Al vertice di Vilnius oltre all’Australia e Nuova Zelanda già parte di Echelon, e il Giappone membro del G7, per la prima volta è stata invitata anche la Corea del sud, segno che la Nato ha intenzione di installarsi stabilmente in oriente. Una “Nato Africana” completerebbe tale disegno, percepito dalla Cina come un accerchiamento unilaterale.

Una Nato globale

Lucidamente Lucia Annunziata si chiede se possa funzionare una “Nato Globale” che non si riduca a diventare il gendarme del mondo frazionato. In Europa Nato e Unione europea sono sempre più coincidenti. Ciò significa che –messa da parte ogni velleità di autonomia strategica europea- l’Europa tende ad assumere in toto l’agenda degli Stati Uniti. In questo modo il tradizionale fianco est si espande fino ad includere il Mediterraneo, il nord Africa, il Golfo, il Caucaso spingendosi verso l’Asia. A sud resta l’Africa subsahariana con le sue instabilità: anche lì lo strumento atlantico appare come il più adatto.

Di conseguenza deperisce il multilateralismo basato sulle Nazioni unite in favore di un quadro di alleanze militari. Il mondo deve trarne le logiche conseguenze. Come osserva l’ex segretario generale del Bjp indiano, Ram Mahdav: «Nessuno auspica di perpetuare l’ordine mondiale attuale, eccetto gli Usa e i suoi alleati. Ma l’ordine autoritario che l’alleanza sino-russa vorrebbe erigere deve ugualmente essere bloccato perché si oppone ai valori etici fondamentali del sud globale, che coniugano assieme liberalismo occidentale e nazionalismo civilizzatore». C’è da aspettarsi un forte sommovimento del quadro geopolitico mondiale.

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