«Avrei preferito morire nel mio paese, sotto le bombe, invece che morire tutti i giorni, pezzo dopo pezzo, in questo campo di gente ammassata», dicono le donne imprigionate nel campo umanitario, allestito nell’isola greca di Lesbo. Il racconto è stato raccolto da Galateia Gergou, psicologa della organizzazione non governativa Intersos.

Il campo prigione

L'aeroporto di Mitilene ha una sola pista di volo, affaccia sul mare, e nelle ore serali, quando il sole si abbassa, si intravedono le luci lungo le coste della Turchia. La distanza che lo separa dal campo di Kara Tepe è di circa due ore di cammino e di 26 minuti se si viaggia in auto.

Una tempistica modesta e facilmente percorribile, a meno che tu non sia una delle 6mila persone che a Kara Tepe ci vive da mesi, stipata in un campo colmo di tende, dalle dimensioni variabili e con il sole a picco dall'alba al tramonto.

L'isola di Lesbo è questa: la costante convivenza e la voluta distanza tra il viavai di turisti alla scoperta delle isole dell'Egeo e una folla di migranti che su quella stessa isola ci vivono senza potersene mai andare. Quell'aeroporto, loro, non lo hanno mai visto.

Un’isola può essere molte cose, un’ambita destinazione blu o una prigione d’acqua, che da fisica diviene mentale. I campi umanitari sono diventati centri di attesa forzata che sconfina nella detenzione, dove migliaia di richiedenti asilo sono intrappolati, in attesa – anche per anni – di ricevere un responso, con effetti devastanti sulla loro salute mentale.

Sono in totale circa 8.596 le persone attualmente bloccate sull’isola di Lesbo, il principale hot spot presente nell’Egeo. La percentuale più alta è composta da afghani (76 per cento) seguiti da gruppi molto più ristretti di altri paesi, tra cui la Somalia (8 per cento), Siria  (7 per cento) e la Repubblica Democratica del Congo (7 per cento). 

Le donne rappresentano il 23 per cento della popolazione e i bambini il 39 per cento, di cui più di 7 su 10 hanno meno di 12 anni. Una percentuale elevata, circa il 5 per cento di loro sono minori soli, non accompagnati o separati, provenienti principalmente dall’Afghanistan.

Il nuovo campo per richiedenti asilo e rifugiati ha preso il nome di Mavrovouni ed è stata la soluzione verosimilmente istantanea messa in piedi dalle autorità greche a seguito dell'incendio che nella notte tra l'8 e il 9 settembre del 2020 ha devastato il più noto e temuto campo di Moria.

Negli ultimi anni Moria è stata la rappresentazione più esemplare del fallimento delle politiche migratorie europee. In uno spazio che poteva ospitare un massimo di 3mila persone, ne erano stipate circa 13mila.

Sono passati cinque anni dalla firma dell’accordo tra l’Unione europea e Turchia per fermare i flussi di richiedenti asilo e da quel 18 marzo 2016 sono state messe nero su bianco le politiche di contenimento in base alle quali tutti i migranti la cui domanda di asilo viene respinta, vengono rimandati automaticamente nel paese guidato da Recep Tayyip Erdoğan.

Le condizioni di vita del campo sono così degradanti e umilianti con ricadute evidenti sulla salute mentale delle persone. «Qui ci sono donne sopravvissute a episodi di violenza di genere, donne sole o con figli da dover proteggere perché a volte i minori subiscono le conseguenze peggiori del vivere in un agglomerato di tende senza nessun tipo di servizio», raccontano gli operatori dell’organizzazione non governativa.

La frustrazione, la paura, il vuoto in pancia non sono soltanto spia di poco cibo, ma anche assenza di speranza e di visione di un futuro. 

«Cosa dici ogni giorno ai tuoi figli?», chiede un’operatrice a una donna, Manal che scoppia in lacrime alla domanda. Piange e contiene una voce tremante: «Non riesco più a mentire, questo non è un posto per loro». Quindici mesi fa ha lasciato la Siria, paese in guerra, insieme al marito e ai suoi due bambini, era incinta durante quei giorni di viaggio.

Durante la traversata in barca dalle coste della Turchia, Manal ha perso il suo bambino. La Siria vive in uno stato di guerra da dieci anni. Sono anni che la comunità internazionale conosce la situazione tragica di questo paese, le vite umane perse, l'emergenza umanitaria insostenibile, guarda le immagini di bambini siriani che approdano morti sulle spiagge dell'Europa. La stessa Europa che accetta che una madre siriana con figli minori viva in un campo dimenticato nel cuore dell'Egeo.

La discarica

Lesbo è in continua mutazione, per quanto immutate siano le condizioni di vita dei migranti. Entro la fine dell'anno il governo greco prevede la costruzione di un nuovo campo finanziato con 76 milioni di euro dell'Unione europea.

Il luogo scelto si trova a circa 40 minuti dall'attuale campo, in un'area isolata a ridosso di una discarica e collegata da una sola strada sterrata. Una scelta finalizzata a voler nascondere agli occhi dell'isola e del resto del mondo ciò che accade se sei un migrante in terra europea.

Quello che verrà dopo sarà ancora una volta un “non luogo”, dove anche l'intervento umanitario potrebbe incontrare nuovi diversi ostacoli per poter agire e operare all'interno del campo.

Il tutto con una pandemia ancora fortemente presente sull’isola. La diffusione del Covid-19 è sempre più rapida in condizioni di sovraffollamento e totale assenza di misure igienico-sanitarie e mentre la campagna vaccinale procede gradualmente in tutto il paese e nel continente europeo, nel campo di Lesbo ci si ammala. Sempre più in fretta, sempre più facilmente.

«Stiamo assistendo a uno scenario già visto, una ripetizione continua: Moria 1, Moria 2 e ora Moria 3. La verità è che i campi delle isole greche sono sinonimo di sovraffollamento e condizioni di vita disumane. Le persone sono esposte quotidianamente a topi, spazzatura e violenza. È vergognoso e spaventoso che debbano vivere in condizioni così indegne», dice Grecia Apostolos Veizis, capo missione di Intersos, che fatica a trattenere la rabbia nel descrivere le condizioni di degrado e insicurezza in cui vivono le persone attualmente accampate nel campo di Mavrovouni.

L’organizzazione non governativa è intervenuta sull'isola di Lesbo dall'inizio dell'emergenza esplosa con l'incendio che ha devastato Moria. Da quel 9 settembre, gli operatori e operatrici umanitarie portano avanti progetti di protezione e tutela soprattutto attraverso percorsi psicologici per donne sole o con figli.

Le donne assistite dal programma di supporto psicologico sono 40, di ogni fascia d'età e di diversa provenienza. Aisha e suo figlio sono arrivati sull'isola di Lesbo nel 2019, partiti soli dall'Afghanistan non hanno più idea di cosa sia diventato il loro paese. Non lo dimenticano, ne ricordano i colori e le temperature elevate d'estate e quelle rigide dell'inverno, ricordano le strade e i vicini di casa ma non osano immaginare come possa essere diventato ora. Un paese dilaniato da 20 anni di conflitto. 

Aisha è una donna giovane, non ha neppure 40 anni, ma l'usura del campo le ha consumato la pelle. Mantiene una lucidità minuziosa nel raccontare nel dettaglio la quotidiana lotta del vivere in una tenda con altre persone.

Racconta del cibo scaduto che viene consegnato loro dalle autorità del campo, spesso ammuffito o insufficiente. Il 20 giugno è stata celebrata la giornata mondiale del rifugiato e proprio in questi giorni è stata diffusa la notizia della decisione della Grecia di indicare la Turchia come paese terzo sicuro per i richiedenti asilo provenienti da cinque nazioni: Afghanistan, Siria, Somalia, Bangladesh e Pakistan.

Potrebbe sembrare un paradosso ma non lo è. A Lesbo, il 65 per cento dei richiedenti asilo è di nazionalità afghana, e l’8 per cento somala. Queste persone rischiano ora di fatto di essere deportate in Turchia, un paese dove non potranno ottenere lo stato di rifugiati.

A coloro che provengono da paesi “non-europei” infatti, la Turchia riconosce uno status “condizionale” che garantisce un livello di diritti inferiore rispetto a quello richiesto dalla convenzione di Ginevra del 1951.

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