«Se non entro a Kobane a combattere, devo rivedere tutta l’idea che ho di me stesso».
Karim Franceschi ha 25 anni quando decide di partire da Senigallia lasciando la sua compagna e sua mamma per raggiungere la Turchia, attraversare il confine siriano e unirsi alla resistenza curda che sta lottando per non far cadere la città in mano all’Isis.

È il gennaio del 2015 e Karim varca il confine turco siriano dopo esserci stato molto vicino a quel confine, poche settimane prima, partecipando ad una staffetta umanitaria, “Rojava calling” si chiama, è una catena di aiuti organizzata dai centri sociali per portare cibo, vestiti, giocattoli alle famiglie che ancora resistono in città.

È attorno ai fuochi in una notte di festa tra attivisti internazionali che osservando la città bombardata Karim decide che per frequentare gli ideali in cui crede, quelli di una società più giusta ed equa, partecipare alle manifestazioni non basta più: «Se non fossi andato a Kobane oggi forse sarei l’ennesimo tizio che lancia le uova contro la Polizia», mi ha raccontato. Il padre di Karim era un partigiano, aveva militato nei Sap di Signa, le sue storie Karim le ricorda appena, muore quando lui ha 12 anni. Karim pensa che in quella città potrà incontrare gli amici di quelle storie. Sì, i partigiani delle montagne che hanno aiutato a liberare il nostro paese dalla dittatura, sono tra le mura di quella città distrutta.

In Kurdistan

L’addestramento all’“accademia” dello Ypg, le unità di protezione del popolo curdo, dovrebbe durare 10 giorni ne durerà solo quattro. L’accademia è un edificio miracolosamente rimasto in piedi dove dormono le reclute volontarie e all’alba corrono lungo una strada protetta dai colpi di mortaio. Montano e smontano dei Kalashnikov che risalgono alla seconda guerra mondiale e sparano mirando sacchi di cemento pizzati in mezzo ad un campo sportivo. La mattina del quarto giorno arriva un tizio avvolto in una pelliccia e nel gibernaggio sottratto ai miliziani dell’Isis che ha sconfitto, si dirige verso Karim e gli dice «mi hanno detto che sei bravo, vieni con me, andiamo al fronte».

La sua educazione guerriera Karim la fa sul campo.

Al fronte tra le mura delle case di Kobane dove l’Isis attacca attraversando la strada, su cui piovono i bombardamenti americani che ti fanno tremare il cuore. Nelle campagne fuori dalla città dove avanzano di villaggio in villaggio in mezzo alla neve, passando più tempo fradici che asciutti, facendo “room cleaning”, pulizia nelle case dove si nascondono i miliziani dell’Isis rimasti indietro. La sua storia riempie fino all’orlo i dieci episodi del podcast in cui la sua voce ci conduce in posti minacciosi dove un nemico cieco e violentissimo si annida ovunque e impila i cadaveri dei nemici fatti a pezzi in una sorta di monumento macabro.

Non usa mai la parola «uccidere» Karim e ho capito subito che non avrebbe mai risposto ad una domanda relativa ai nemici uccisi, quindi non gliel’ho mai posta. L’ho capito quando mi ha raccontato la delusione, al suo ritorno in Italia, con 30 chili in meno e un amico gli chiede «Quanti ne hai uccisi?». Ci ritornerà altre due volte in Siria, la prima quasi a vuoto in una Kobane liberata che non ha più bisogno di combattenti ma di cittadini che tornino a viverla, mentre la seconda sarà l’atto finale della sua formazione di combattente, da recluta a comandante di un battaglione internazionale che libererà uno dei quartieri di Raqqa, roccaforte dell’Isis.

La voce di Karim

Foto Ap

La storia di Karim è già un libro, Il combattente (Rizzoli) e potrebbe essere un film o una serie televisiva. La storia di Karim però è soprattutto un racconto a voce, una voce che si rompe, tituba, si interrompe e riparte tra momenti di entusiasmo e umorismo spiazzante e imprevisto. Sono le ore di parole che ho registrato sul mio registratore digitale. Sono le voci di chi ha contribuito a raccontare la sua storia: i suoi amici, i giornalisti che l’hanno conosciuto come Corrado Formigli, gli esperti di medio oriente come Amedeo Ricucci della Rai, di balistica e addestramento come il generale Luigi Scollo, o Imma Vitalli che ci racconta il suo incontro con Karim nella prima linea di Kobane dove si trovava per Vanity Fair.

Il podcast oggi non è più una parola nuova da spiegare ogni volta che la pronunci «come la radio ma solo on line», «un file audio che trovi in rete ma che è costruito come un programma radiofonico». I dati che emergono dall’ultima ricerca effettuata da Ipsos e realizzata per Audible.it proprio in questo ottobre 2020, ci dice che nell’ultimo mese il 30 per cento degli italiani ha ascoltato un podcast, uno su tre in pratica e la metà di loro ha meno di 35 anni. Per lo più l’ascolto avviene dentro casa, novità assoluta rispetto alla fruizione automobilistica della radio e tra chi ascolta i podcast il 25 per cento lo fa tutti i giorni. Mentre l’11 per cento addirittura si dedica esclusivamente all’ascolto senza fare altro.

Il podcast è uno strumento che regala una grande opportunità a chi lo scrive: la possibilità di avere spazio e tempo per approfondire il contenuto che stai trattando, che sia una storia di guerra, una ricetta di cucina o il commento di un evento sportivo.

Chi ascolta il podcast lo ha scelto quindi ne ha sentito parlare, lo ha cercato e ha ci ha cliccato sopra, non prima di aver letto le poche righe di presentazione. In qualche modo lo ha studiato e abitualmente quando si accinge ad ascoltare lo fa se ha un lasso di tempo a disposizione tale da poterselo godere, quindici o venti minuti almeno. Questa cosa non succede con gran parte dei contenuti fruibili dallo smartphone: apriamo Instagram quando abbiamo pochi secondi a disposizione: mentre siamo al telefono con l’auricolare, durante una pubblicità in tv o addirittura durante una conversazione noiosa. Non apriremmo mai un podcast in queste situazioni, lo facciamo partire quando sappiamo di avere del tempo da dedicargli.

L’occasione del podcast

Chi fa podcast deve esserne consapevole e non tradire la fiducia di chi lo ha scelto.
La sfida che aspetta il futuro prossimo del podcast però credo che stia nel linguaggio. L’immaginario di chi racconta ormai da decenni si è forgiato dal il cinema e oggi dalle serie tv, quindi chi scrive per l’audio ancora lavora con immagini in testa che spesso cerca di tradurre e rendere visibili a chi ascolta. Forse però l’audio ha già bisogno di un immaginario nuovo, di una scrittura apposita e quindi anche di un nuovo modo di ascoltare e “vedere” le cose che si ascoltano.

In Oltre il confine grazie anche al lavoro di Luca Micheli, il sound designer che ha composto e suonato le musiche originali (che verranno pubblicate come colonna sonora separatamente dal podcast), ho provato a portare chi ascolta dentro ad un mondo fatto di parole e suoni, prima che di visioni, un mondo in cui la voce di Karim è la guida.

Al secondo dei due giorni che abbiamo trascorso insieme a Senigallia Karim mi ha detto che la notte prima aveva dormito poco e male. Mi ha consigliato di leggere un libro che si intitola Achilles in Vietnam, un compendio del lavoro dello psichiatra Jonathan Shay che ha lavorato per anni con i soldati americani reduci della guerra del Vietnam. Una sorta di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello dedicato alla Ptsd, il trauma da stress post traumatico, un libro dei racconti di notti insonni a controllare compulsivamente le finestre e le porte di casa, o di mogli aggredite nel sonno perché scambiate per un Vietcong.

Il rientro

Al suo ritorno Karim ha ripreso la vita di sempre: il lavoro, la compagna, il suo cane e il pugilato. Si è tirato fuori dai centri sociali, anche se molti suoi amici sono ancora quelli conosciuti lì. Qua e là interviene in qualche programma televisivo per raccontare la sua storia o per dare la sua opinione sulle cose mediorientali, sul califfato islamico, la Turchia, il popolo curdo.

Ma lo fa sempre meno. Scrive ogni tanto sulla sua pagina Facebook, ma con minore intensità, ha abbandonato Instagram dove c’era qualche foto dei giorni di Kobane. In aprile, quando ci era impossibile spostarci, abbiamo fatto un’altra lunga chiacchierata via Skipe e quando gli ho chiesto cosa ne pensasse della pandemia, ridendo, mi ha detto che aveva sentito qualcuno dire che la gente come lui sarebbe morta per via del Covid-19 perché lo avrebbe snobbato, poi si è fatto serio e mi ha confessato che non gli fanno paura le cose pericolose, o le cose che abitualmente mettono paura, gli fa paura non essere in grado di vivere una vita normale, quotidiana. La nostra vita.

«Quando ero a Kobane ero un rivoluzionario, a Raqqa ero un comandante di battaglione. Oggi chi sono? Sono un reduce di guerra che racconta quello che ha fatto». Il prossimo 31 marzo Karim compie 32 anni. Auguriamogli buona fortuna.

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