Per quasi due decenni, a cavallo del nuovo millennio, l’ordine internazionale è stato caratterizzato dalla globalizzazione. Un fenomeno che ha implicato un progressivo superamento delle frontiere nazionali nei settori dell’economia, del commercio e della finanza, lo sviluppo delle comunicazioni e delle tecnologie, ma anche un processo attraverso il quale gli stati nazionali e la loro sovranità sono stati condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali, dalle loro chance di potere, dai loro orientamenti, identità e reti (U. Beck). In tale contesto, hanno preso avvio processi giuridici complessi, non ancora compiuti, che hanno evidenziato la ricerca di una “globalizzazione del diritto,” caratterizzata dalla ricerca di un difficile bilanciamento tra libertà e regole.

Ben presto, tuttavia, l’imporsi del mercato globale ha dimostrato di mancare un obiettivo primario, mostrandosi incapace di promuovere una più equa ripartizione della ricchezza, creando profonde disuguaglianze, non solo tra gli stati ma anche tra gli individui. In questo contesto, le Nazioni unite non hanno saputo rivestire il ruolo che spettava loro, rendendo concreta la prospettiva della planetarizzazione squilibrata, senza il parallelo procedere di una corrispondente tutela globale dei diritti umani e della democrazia.

Una “nuova globalizzazione”

Recentemente alcuni commentatori hanno iniziato a parlare di slowbalization o deglobalization. Si tratta di concetti simili che, tuttavia, colgono due diversi profili del fenomeno: da una parte, si vuole sottolineare il “rallentamento” della globalizzazione, intesa soprattutto come questione economica; mentre dall’altra, si intende enfatizzare una certa “inversione di rotta” politica, verso un mondo meno connesso, caratterizzato da interessi egoistici degli stati, soluzioni locali e controlli alle frontiere, piuttosto che da istituzioni globali, trattati multilaterali e libera circolazione. Dal punto di vista del diritto, invece, si tratta di una circostanza che non trova ancora un adeguato approfondimento né da parte degli stati e delle organizzazioni internazionali, che da parte degli studiosi.

È opinione generale che il rallentamento dell’integrazione globale abbia preso avvio dalla crisi finanziaria globale del 2007-2008 e successivamente acquisito una progressiva forza a causa del ritorno a un certo protezionismo da parte degli stati (trumpismo e Brexit), grazie agli effetti della pandemia e, recentemente, a seguito della crisi ucraina. Come conseguenza, il commercio internazionale e gli investimenti relativi al prodotto interno lordo hanno iniziato a diminuire, le catene di approvvigionamento si sono contratte dopo anni di esternalizzazione e delocalizzazione globale. In questo contesto, anche la cooperazione internazionale e il multilateralismo in ambito economico hanno subito un forte rallentamento, tanto da indurre alcuni a proclamare la fine della globalizzazione.

A ben vedere, tuttavia, il fenomeno in esame non sembra affatto essere giunto al capolinea: basti pensare alla globalizzazione nei servizi che ha continuato a espandersi, alle telecomunicazioni o alla crescita dei flussi di dati internazionali, ma anche alla ripresa del turismo e delle migrazioni post-Covid. La globalizzazione economica internazionale ha sì effettivamente rallentato, ma il salto digitale e la cooperazione in ambito sanitario suggeriscono, a un’analisi più attenta, che il processo originario non stia scomparendo ma semplicemente cambiando forma, diventando sempre più complesso e sfaccettato, suggerendo una “nuova globalizzazione”. D’altronde, dal punto di vista politico, accanto al riemergere degli interessi nazionali in ambito economico o militare, la cooperazione internazionale sta trovando nuovi slanci in materia ambientale, culturale e sanitaria.

In ogni caso, quali siano le posizioni che si vogliono assumere di fronte a tale trasformazione, che si tratti di slowbalization, deglobalization o new globalization, questi fenomeni non devono essere concepiti per forza come negativi in sé, ma possono essere intesi come un’opportunità per la comunità internazionale.

Ciò che appare evidente è la necessità di un ripensamento dell’ordine internazionale attuale, di quelle regole globali envisagées nella prima globalizzazione e mai realizzate in maniera effettiva o sistematica, o quantomeno degli equilibri esistenti. In questo contesto, potrebbe essere fondamentale il ruolo delle Nazioni unite che, dopo il sostanziale fallimento nella governance del fenomeno originario, potrebbero rendersi protagoniste in questa nuova fase.

Gli scenari possibili 

L’ordine internazionale esistente, sorto a seguito del Secondo conflitto mondiale, ha assorbito la fine del bipolarismo ed è riuscito a rilanciarsi, globalizzandosi. Oggi, tuttavia, quest’ultimo sembra incapace di gestire efficacemente i nuovi scenari: dalla deglobalizzazione al cambiamento climatico, dalla lotta alla pandemia alla gestione della crisi in Ucraina. Il suo rinnovamento appare necessario, anche se la varietà dei fattori destinati a influenzare il processo di una eventuale trasformazione rende arduo prefigurarne gli esiti.

Potrebbe darsi un ordine che, pur ampiamente riformato, conservi la propria connotazione, basato su regole, aperto, orientato al mercato e alla democrazia. All’estremo opposto, si potrebbe scivolare in una condizione poco regolata, che affiderebbe il mantenimento della pace alla mera dissuasione reciproca tra grandi potenze intente a proteggere le rispettive sfere d’influenza, con prevedibili scarsi risultati.

Tra queste alternative, si collocherebbe una terza opzione, più mite, nella quale le Nazioni unite, in un sostanziale mantenimento dell’architettura internazionale, sarebbero chiamate ad assumere un ruolo centrale nelle relazioni internazionali. In tale contesto, l’Organizzazione potrebbe ritagliarsi un ampio margine di manovra proprio con riferimento alla gestione della cosiddetta deglobalizzazione. Tale scenario, d’altronde, sembra essere quello più probabile, soprattutto in ragione della scarsa disponibilità degli stati a riformare dalle fondamenta l’ordine internazionale costituito e della propensione all’ottimismo che ci spinge a rifiutare una società internazionale priva di regole. Inoltre, in un “momento westfaliano” del sistema internazionale, dove gli stati rivendicano la loro sovranità e prevale la rivalità tra super-potenze, appare auspicabile che le Nazioni unite colgano l’occasione per fondare la loro azione nel multilateralismo cooperativo, anche per arginare la deriva anarchica dell’attuale sistema internazionale.

In questo contesto, l’Onu potrebbe farsi sostenitrice della produzione di regole globali, che oggi si inserirebbero in una mutata e più evoluta sensibilità degli stati sulle questioni ambientali, di salute pubblica e di protezione di alcuni diritti fondamentali. La spinta verso una nuova globalizzazione decentrata, infatti, renderebbe possibile la preservazione di quegli interessi che gli stati hanno già individuato in chiave bilaterale e nazionale: le clausole di condizionalità, di responsabilità sociale, di sostenibilità ambientale ormai contenute in un numero consistente di strumenti bilaterali potrebbero finalmente trovare posto in un ambito di concertazione multilaterale in seno alle Nazioni unite.

Inoltre, un momento in cui l’Organizzazione vive una grande crisi sul piano del mantenimento della pace e della sicurezza, un rafforzamento delle sue azioni in materia di tutela dei diritti fondamentali nel processo di slowbalization darebbe un nuovo slancio all’istituzione, irrigidita da tempo. Quello che si propone in sostanza è un ripensamento degli equilibri esistenti che implicherebbe – almeno in questo ambito – un’inversione di rotta, per così dire, più sostenibile: dalla ricerca di una “globalizzazione del diritto” a un più raggiungibile “diritto della globalizzazione”. Resta da chiedersi se le Nazioni unite sapranno cogliere questa occasione e rivestire in maniera efficace questo ruolo.

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