Di questi tempi i politici e i media si guardano bene dall’usare la parola austerità. Difatti, il termine terribile – che sta a indicare deflazione monetaria, tagli alla spesa sociale (per esempio tagli alle pensioni, sanità...), privatizzazioni e precarizzazione del lavoro – porta a reminiscenze delle dure pillole che gli italiani, come i greci, gli spagnoli e molti altri, dovettero ingoiare dopo la crisi del debito sovrano poco più un decennio fa. Nonostante le grandi promesse di spesa pubblica per la gestione pandemica, invece ci risiamo.

Le banche centrali in tutto il mondo alzano i tassi di interesse – con impennate che non si vedevano dagli anni Ottanta – e i governi iniziano a tirare la cinghia, avendoci spiegato che i soldi europei non sono un generoso regalo.

Contro l’inflazione

Da mesi gli esperti economici a capo delle istituzioni monetarie invocano sofferenza collettiva nei tempi che verranno, come unica cura all’alta inflazione: tassi di interesse più alti porteranno a una recessione economica e ad alta disoccupazione. Eppure le rotta non cambia. Come si può spiegare questo apparente paradosso?

Per trovare un senso a questo apparente non-senso la storia può esserci maestra. Occorre puntare lo sguardo su ciò che accadde esattamente un secolo fa, in un momento in cui il nostro sistema economico attraversava una profonda crisi esistenziale, infine risolta con l’olio di ricino fascista.

L’inflazione imperante dopo la prima guerra mondiale aveva infatti contribuito a innescare una forte insoddisfazione nei confronti del capitalismo, che proprio per questa ragione era stato posto sotto attacco, come non mai, da parte di ampi strati della società.

Durante gli anni rossi del 1919-1920 i lavoratori di tutta Europa ne avevano chiesto il rovesciamento: il lavoro emancipato si sarebbe sostituito allo sfruttamento, la proprietà collettiva avrebbe sostituito quella privata, i pubblici servizi e una produzione destinata all’uso sarebbero subentrati alla produzione per il profitto. Nell’estate del 1920 gli operai della Fiat si sedettero simbolicamente alla scrivania di Agnelli dimostrando di poter gestire le fabbriche tramite i propri consigli e senza bisogno degli imprenditori.

A capo del movimento dell’Ordine Nuovo, Antonio Gramsci riportò le parole di un lavoratore della Brevetti-Fiat, entusiasta del modo in cui, con le nuove istituzioni di autogoverno, i lavoratori avessero iniziato «la marcia nella Rivoluzione e non più verso la rivoluzione [...] fino al raggiungimento dello scopo massimo; la liberazione del lavoro dalla schiavitù del capitale» (Gramsci 1921).

Mentre per più di un mese l’occupazione delle fabbriche si spargeva per l’intera penisola italiana, anche in Inghilterra l’autogestione divenne una concreta opzione politica, discussa addirittura sulle pagine del Times. Come osservò Lord Sankey nella relazione della Commissione per la nazionalizzazione del carbone, era presente tra i lavoratori di quel settore molto più del «desiderio di ottenere i vantaggi materiali rappresentati da salari più alti e da un orario di lavoro più breve». I lavoratori esprimevano «́ l’ambizione di fare la loro parte».

Fu allora chiaro all’establishment che l’aumento dei prezzi, così insopportabile per i ceti sociali più deboli, stesse portando a conseguenze dirompenti per le basi stesse del capitalismo. La prognosi di J.M. Keynes era d’altronde stata inequivocabile: «Un proseguimento dell’inflazione e il mantenimento di un livello elevato dei prezzi non soltanto deprimerà i commerci, ma con le sue conseguenze sui prezzi colpirà l’intera base del contratto, della sicurezza e del sistema capitalistico in generale». Con toni simili, Luigi Einaudi scriveva: «quel che pareva muovere nel profondo la società intiera e preparare la rivoluzione sociale fu [...] chiamato con parola tecnica inflazione monetaria» (Einaudi 1933, p. 337).

Gli errori degli economisti

Nel libro Operazione Austerità: Come gli Economisti Aprirono la Strada al Fascismo (Einaudi 2022) indago come, in un momento di sollevazione democratica senza pari che interessò l’Europa intera, due sistemi politicamente lontanissimi – l’Italia del primo fascismo e l’Inghilterra liberale di Lloyd George – abbiano affrontato questa crisi apparentemente terminale del capitalismo. Ne emerge una convergenza inquietante che, proprio oggi, a cent’ anni dalla marcia su Roma, può essere assai istruttiva: gli esperti economici, in entrambi i contesti politici misero mano alle loro armi più potenti per conservare il mondo come pensavano dovesse essere. L’austerità fu lo strumento più efficace: funzionò – e funziona tuttora – per mantenere indiscusse le fondamenta di un sistema economico capitalistico. In entrambi i paesi, si posero in essere misure di austerità sostanzialmente identiche, quali l’aumento dei tassi di interesse, la privatizzazione di beni pubblici, la tassazione regressiva (ovvero tagli agli scaglioni più alti e aumento delle accise sui consumi popolari) e continue falciature della spesa sociale.

La storia ci insegna che queste politiche, lungi dal costituire errori di teoria, sono strategie per esacerbare la recessione economica e fiaccare la resistenza popolare. Per esempio, la minore spesa pubblica e gli alti tassi di interesse significano minori investimenti, meno posti di lavoro e licenziamenti. La crescita della disoccupazione diventa così una minaccia irresistibile per chi deve mantenere la propria famiglia e la più efficiente tra le misure disciplinari.

In Italia politiche economiche simili furono poste in essere da Benito Mussolini per mostrarsi all’altezza delle aspettative di quei poteri nazionali (Confindustria) e internazionali (mercati finanziari anglo-americani) che ne avevano favorito l’ascesa al potere.

Poteri forti

Lungi dall’essere nemico del capitale finanziario, Mussolini ne era stretto alleato e che il coinvolgimento di professori di economia per imporre l’austerità fu la chiave attraverso cui il regime si consolidò, sia internamente – ottenendo il sostegno dell’élite liberale – sia presso le cancellerie di tutta Europa e degli Stati Uniti. L’esito fu l’eliminazione della voce dei lavoratori (gli scioperi e i sindacati non fascisti furono messi fuori legge), l’aumento dei profitti e la soppressione salariale.

In qualsiasi contesto politico l’austerity, pur presentandosi come misura necessaria per la sopravvivenza di tutti, scarica il costo del mantenimento di un ordine favorevole alle classi dominanti sulla maggioranza dei cittadini, che è costretta a rinunciare a qualunque idea o progetto di democrazia economica e a «vivere più duramente», con salari più bassi e disponibilità di consumo inferiori.

Sotto forma di lotta all’inflazione e pareggio di bilancio – argomenti cardine, che rimangono pietre miliari della retorica degli esperti ancora oggi – gli economisti lavorarono fianco a fianco a governi tanto fascisti quanto liberali e continuano a lavorare, al servizio di un obiettivo più essenziale: imbavagliare qualunque reale alternativa sociale allo status quo.

Oggi

Un secolo dopo, le condizioni possono sembrare diverse e il conflitto politico non altrettanto minaccioso, tuttavia le classi dominanti non danno mai per scontato l’ordine costituito e si attrezzano anche preventivamente con l’aiuto dell’ortodossia economica.

L’austerità e la conseguente recessione economica sono dunque utili per prevenire il conflitto sociale determinato dal malcontento e per impedire un possibile cambiamento radicale del sistema economico vigente e non, come viene invece proclamato, per migliorare spontaneamente gli indicatori economici della nazione. E’ questo l’insegnamento che ci proviene dalla storia.


Clara Mattei è l’autrice di Operazione austerità: Come gli economisti aprirono la strada al fascismo (in uscita per Einaudi).

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