«Il miglior pane che abbia mai assaggiato era una grande forma casereccia attraversata da alveoli delle dimensioni di biglie e palline da golf: di sicuro c’era più aria che pane. La crosta era una scorza dura, quasi bruciata, ma racchiudeva all’interno una mollica così tenera, umida e lucente da far pensare a una crema. C’era qualcosa di sensuale nel forte contrasto fra questi due regni, l’esterno e l’interno, il duro e il morbido». Così si pronuncia Michael Pollan, nel 2013, sulle pagine di un libro cult come Cooked (Cotto nella traduzione italiana, Adelphi, 2014).

La copertina del primo numero di Cibo, il nuovo inserto mensile di Domani. Dal 25 giugno in edicola e in digitale

Parole felici su una delle esperienze più illuminanti per la disciplina della panificazione moderna, che l’autore americano analizza con approccio scientifico e sentimentale insieme, muovendo dalla consapevolezza che «la panificazione è la prima industria di trasformazione del cibo comparsa nel mondo». Il merito di aver acceso l’interesse di Pollan per il pane, in modo così vivido, si deve a Chad Robertson, panificatore californiano presto assurto a fama planetaria, per la capacità di mettere d’accordo i professionisti del settore e gli amatori col pallino della panificazione casalinga (ben prima della pandemia).

Il pane sourdough

Chad Robertson prepara delle pagnotte da cuocere alla Tartine Manufactory di San Francisco / Foto Ap

Nel 2002, Robertson apre a San Francisco Tartine: quel forno, nato nel quadrante di Mission District con la benedizione della guru della cucina farm to table Alice Waters, in vent’anni ha dato vita a un impero, che oggi conta otto sedi in California e sei a Seoul.

Il segreto? La capacità di gestire la lievitazione naturale a pasta acida (sourdough in inglese) con l’ausilio della tecnologia e tanta osservazione empirica, per sfornare un pane «con un’anima antica», però dotato di un’identità riconoscibile.

Una storia già scritta, penseranno i più avvezzi, considerando che la California è bacino d’origine di uno dei batteri – il Lactobacillus sanfranciscensis – che compongono la coltura di base del sourdough: a San Francisco, il pane a lievitazione naturale era famoso già negli anni Settanta, e del 1971 è l’articolo con cui un gruppo di scienziati identifica i microbi locali che agevolarono questa consuetudine.

Eppure l’acidità gentile e fruttata che caratterizza il country bread di Tartine è soprattutto farina del sacco di un ragazzo che ha mosso i primi passi in cucina, al Culinary Institute of America di New York, ed è rimasto folgorato dalla panificazione a migliaia di chilometri dalla West Coast, in Massachusetts, grazie all’incontro con Richard Bourdon, indomabile panettiere titolare della Berkshire Mountain Bakery: paste super idratate, lunga fermentazione, infornata ad alta temperatura (Robertson saprà stemperare certi eccessi, pur preservando l’approccio passionale del suo primo mentore).

Seguiranno numerosi viaggi in Europa per rubare spunti e suggestioni con gli occhi, incontrare persone, esplorare tradizioni. Poi il primo progetto in solitaria, il Bay Village Bakers a Point Reyes Station, di nuovo in California, fino al debutto di Tartine. Perché tornare così indietro per indagare il presente e il futuro del pane?

La nascita di un metodo

Chad Robertson, co-proprietario di Tartine Bakery, prepara il pane a lievitazione naturale nella cucina di Tartine a San Francisco / Foto AP

Perché Tartine è diventato un metodo, ancor prima che un successo imprenditoriale. Tartine Bread, il primo libro firmato da Robertson, ha reso iconica la pagnotta che Pollan è stato capace di descrivere con tanto trasporto. E mentre la fila di avventori allineati fuori dall’uscio di Mission District cresceva, sono arrivati riconoscimenti, interviste, nuove collaborazioni, un secondo libro. Oltre a un piano di sviluppo lungimirante dell’azienda, contando sul supporto di professionisti qualificati (chef, lievitisti, designer, creativi) e sulla diversificazione dell’offerta.

Tartine ha fatto scuola, da incubatore di esperienze e fucina di formazione: numerosi sono i panificatori contemporanei che hanno mosso lì i primi passi, per poi avviare i rispettivi progetti in tutto il mondo (li conosceremo nei prossimi mesi).

Da qualche tempo, Robertson collabora con il Bread Lab della Washington State University: l’attenzione si è spostata sul lavoro in campo e in mulino, perché cruciale è cambiare l’approccio che regola la selezione dei grani e la produzione di farine, in progressione inversa a quanto avvenuto con l’avvento della rivoluzione industriale.

Alla fine del 2021 è arrivato in libreria Bread Book, lavoro che Robertson firma con Jennifer Latham, suo braccio destro da Tartine. Una pubblicazione celebrativa, ma soprattutto una dichiarazione di intenti: oggi la panificazione dev’essere al centro del rinnovamento del sistema alimentare. Il pane, nutrimento caricato di valori culturali, religiosi, sociali ed economici in secoli di storia, non può essere dato per scontato. E la rivoluzione si fa insieme: produttori, mugnai, panificatori.


Questo è il primo appuntamento della rubrica Non è più il pane di una volta. Di mese in mese racconteremo il pane contemporaneo, la rivoluzione californiana e la scuola danese, l’evoluzione dei paysan boulanger in Francia, l'Australia di Iggy’s Bread, ma anche, ovviamente la new age di Londra, il Canada e i nuovi panettieri italiani. L’India e il Giappone con le loro tradizioni che cambiano.

© Riproduzione riservata