Per la campagna elettorale di Joe Biden i segnali non sono incoraggianti: alto livello d’impopolarità con un’approvazione che viaggia intorno al 40 per cento; un problema di età che, secondo i sondaggi, preoccupa una grande maggioranza degli americani (il 73 per cento, secondo una recente rilevazione della Cnn) e uno sgretolamento della coalizione vincente del 2020 che, dopo il sostegno incondizionato dato allo stato d’Israele nel conflitto con Hamas, ha visto progressisti ed elettori di origine araba allontanarsi dal presidente. Inoltre la Bidenomics, argomento che veniva considerato come un’arma vincente, è diventato un termine usato come sfottò dagli esponenti repubblicani.

Cosa resta dunque nell’arsenale della Casa Bianca? Semplice: la demonizzazione dell’avversario. Arma a doppio taglio che, se nel 2016 ha fatto cilecca, questa volta potrebbe funzionare. Specie se Donald Trump viene paragonato direttamente ad Adolf Hitler.

Dopo l’Iowa

Poco dopo la vittoria dell’Iowa, gli account della campagna social di Biden hanno scritto che questo è uno scontro tra «noi e i repubblicani Maga estremisti, ma questo lo sapevamo già io e voi». Come a rimarcare l’arrivo di un pericolo.

Ai componenti più giovani dello staff del presidente è poi venuta l’idea, che viene vagliata in questi giorni, di andare “full Hitler” con Trump. E del resto già a dicembre uno degli account più aggressivi e meno istituzionali, chiamato “Biden-Harris HQ” ha postato un’immagine che fa una comparazione diretta dei discorsi del Führer con quelli del tycoon, notando le somiglianze di espressioni come «inquinamento del sangue» e il riferimento ai «nemici interni» definiti come «vermi».

Ci sono anche alcuni fatti che mostrano una certa ammirazione di Trump per Hitler. Nel 1990, poco dopo il divorzio dalla sua prima moglie Ivana, l’ex presidente aveva ammesso di possedere una copia del Mein Kampf e mentre la coniuge aveva rivelato all’avvocato divorzista, Michael Kennedy, che The Donald leggeva anche una raccolta di discorsi intitolata Il nuovo ordine.

Anche durante la sua permanenza alla Casa Bianca Trump aveva usato dei paragoni a dir poco curiosi. Nel libro The Divider: Trump in the White House 2017-2021, scritto dai giornalisti Peter Baker e Susan Glasser, il generale John Kelly, capo di gabinetto dal 2017 al 2019, rivela l’ossessione dell’allora presidente per la «totale lealtà» dei generali nazisti. Anche se Kelly gli avrebbe fatto notare che proprio alcuni alti ufficiali dell’esercito avevano tentato di uccidere il Führer, chiaro riferimento all’attentato del 20 luglio 1944.

Il precedente di Hillary

Al netto dei toni indubbiamente autoritari dell’ex inquilino della Casa Bianca e della sua lunga vicinanza ad antisemiti conclamati come il suprematista bianco Nick Fuentes, già ospite della residenza di Mar-a-Lago, le mosse di Biden somigliano in modo preoccupante al cosiddetto “Project Fear” usato dalla campagna elettorale di Hillary Clinton nel 2016 per infondere preoccupazione negli elettori e far breccia tra i moderati.

Stavolta, però, c’è un quadriennio a cui attingere, culminato con l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, e una maggiore solidità di argomenti a sostegno della tesi “o Trump o la democrazia”.

Dall’altra parte, però, c’è anche un antico adagio coniato dalla Whitaker & Baxter, una delle prime società di consulenza politica nata in California nel 1933: «Non si può battere qualcuno senza nulla». E le idee di Biden per un suo possibile secondo mandato non sono affatto chiare. Non c’è traccia di progetti ambiziosi quali il piano di rinnovo infrastrutturale varato nel 2021 così come di nient’altro che non sia “andiamo avanti così come adesso”.

Un presidente impopolare

L’impopolarità del presidente in carica appare dunque fardello molto pesante, anche se c’è un precedente recentissimo e incoraggiante. Nel 2022, dopo la sentenza Dobbs v. Jackson della Corte Suprema federale, verdetto che cancellava la protezione nazionale del diritto all’aborto, tutti i candidati democratici – non era importante chi fossero – hanno avuto una forte spinta nei consensi. Bastava che difendessero i diritti riproduttivi.

Anche stavolta, dunque, con una riduzione dell’esposizione mediatica del presidente, già estremamente bassa rispetto al predecessore Barack Obama, questa scommessa potrebbe risultare vincente. Certo, sarebbe tutto più difficile se il candidato repubblicano non fosse Trump.

© Riproduzione riservata