Le gru si stagliano su una distesa di terra chiara, le macchine escavatrici lavorano senza interruzione, i camion vanno e vengono trasportando il materiale necessario alla costruzione di un gigantesco sito di isolamento medico; secondo l’agenzia di stampa statale ospiterà oltre tremila stanze.

Siamo a Shijiazhuang, città di 11 milioni di abitanti, capoluogo della provincia dello Hebei. Le immagini non possono non riportare alla mente quelle dell’ospedale costruito in 10 giorni a Wuhan, poco meno di un anno fa.

In Cina dall’inizio dell’anno la media giornaliera di nuovi casi positivi al Covid-19 è salita a 140 e il 14 si è registrato il primo decesso dopo 8 mesi. Numeri che in occidente farebbero tirare un sospiro di sollievo, ma nel Celeste Impero sono sufficienti ad attivare nuovamente la “modalità di guerra” contro il “demone virus”. Le province settentrionali dello Hebei e dello Heilongjiang hanno dichiarato lo stato di emergenza, 22 milioni di abitanti sono in lockdown e 20mila persone sono state trasferite dai villaggi in centri per quarantena.

Da maggio il Dragone sembrava tornato lentamente alla normalità. Un sistema politico autoritario, la diffusione di informazioni univoche sulla pericolosità del virus, le caratteristiche culturali che hanno permesso al partito comunista di mobilitare la popolazione affinché ognuno facesse la sua parte, la chiusura dei confini, il severo obbligo di quarantena, la capacità tecnologica di tracciare via app i positivi e la disponibilità di tamponi e strutture di isolamento per risalire alla catena del contagio, e bloccarla in tempi brevissimi, sono stati gli strumenti.

Nei mesi che in occidente sono coincisi con la seconda ondata, in Cina, grazie al tempestivo controllo dell’andamento della pandemia, è stato possibile viaggiare, cenare fuori, andare in palestra, al cinema, in discoteca, tornare al lavoro senza restrizioni o coprifuoco. Non è un caso che la Cina sia stata la prima economia ad uscire dalla crisi e l’unico paese sviluppato a chiudere l’anno, dopo il tonfo primaverile, con un pil preceduto dal segno più (con un più 4,9 nel terzo trimestre).

Cosa c’è in gioco

Il grande allarme di questi giorni, nonostante i numeri esigui in rapporto a una popolazione da 1 miliardo e mezzo, è dovuto a due fattori. Il primo ha a che fare con la posizione dei nuovi focolai: la provincia dello Hebei circonda la municipalità di Pechino, centro nevralgico del potere politico, con 21 milioni di abitanti. Il secondo è legato agli imminenti festeggiamenti del capodanno cinese, periodo dell’anno di 40 giorni (nel 2021 dal 28 gennaio all’8 marzo) che tradizionalmente registra lo spostamento di oltre cinquecento milioni di persone in viaggio dalle aree urbane ai villaggi di origine, per trascorrere la ricorrenza con la famiglia.

Per i cinesi è l’unico periodo di vacanza così lungo da permettere tali ricongiungimenti e ha un significato simbolico paragonabile al Natale. Il governo non vuole ripetere gli errori dell’anno scorso: la comunicazione ai cittadini sulla pericolosità del virus e sul passaggio dell’infezione da uomo a uomo arrivò il 20 gennaio, con tre settimane di ritardo, dopo che la “più grande migrazione umana del mondo” era già in corso, contribuendo in maniera massiccia alla diffusione del contagio (prima del lockdown solo da Wuhan si erano messi in viaggio in oltre 5 milioni).

Dopo mesi di retorica nazionalista ed esaltazione della capacità di contenimento del virus garantita dal “modello cinese”, l’inizio di una seconda ondata potrebbe tradursi in un calo di fiducia e rivelarsi un problema per il partito e il presidente Xi Jinping, che in questi mesi si è intestato i meriti per la gestione virtuosa della crisi. Rischio che Pechino vuole evitare: la Cina, dice il think tank inglese Center for Economics and Business Research, potrebbe superare gli Usa e diventare prima potenza economica già nel 2028, cinque anni prima del previsto.

© Riproduzione riservata