Il noto filosofo israeliano Raphael Zagoury-Orly, che insegna in Francia e in Europa ed è stato anche visiting professor alla Sapienza, si chiede dalle colonne della Stampa come sia possibile che si stia dimenticando l’atroce massacro commesso da Hamas il 7 ottobre, che dovrebbe essere definito atto di sterminio o pogrom e non un’azione meramente militare.

Di conseguenza il filosofo critica il «desiderio di comprendere» secondo il quale: «Quello che è accaduto il 7 ottobre non è giustificabile ma è comprensibile» come affermano tanti intellettuali europei. »Basta con questo desiderio di comprendere – scrive – non tutto può essere decifrato usando il termine comprensione. Comprendere l’altro al punto di razionalizzare la barbarie equivale a giustificare la barbarie tout court».

Si tratta di una domanda essenziale, da porsi per non scivolare sul terreno della tifoseria, come sembra stia accadendo in Occidente e ovviamente in Medio Oriente. In realtà sappiamo che anche nei popoli arabi l’essere identificati con Hamas non piace per nulla, figurarsi in Europa.

La Schadenfreude

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Tuttavia esiste una specie di Schadenfreude, provocata dal fatto che la questione palestinese è stata lasciata marcire per decenni. Si tratta di un atroce “piacere derivato dalla sfortuna altrui”, in questo caso di Israele che si è scoperto debole e attaccabile dopo aver sfoggiato tanta forza e alterigia. A complicare il quadro c’è la politica di Benjamin Netanyahu che ha da sempre pessime relazioni con i governi occidentali, inclusi gli Usa. Tale sentimento si moltiplica oggi con le immagini altrettanto atroci di Gaza sottoposta a bombardamenti indiscriminati.

Occorre trovare una risposta al dilemma posto dalle parole di Zagoury-Orly, per non limitarsi a fare la macabra contabilità delle vittime che si rinfacciano tra nemici (del tipo: il mio bambino ucciso vale più del tuo), o l’impossibile bilancio dei torti e delle ragioni che non porta mai da nessun parte. In guerra, anche se tutti hanno “le loro ragioni”, nessuno “ha ragione”.

Come reagire alla questione del “comprendere”? Ci viene in soccorso un famoso filosofo, teologo e pedagogista ebreo. Martin Buber, nato a Vienna nel 1878 e alla fine della vita naturalizzato israeliano. Lo ha citato il presidente di Sant’Egidio Marco Impagliazzo durante il 37° incontro internazionale per la pace di Berlino a settembre scorso.

Diceva Martin Buber: «Il mondo non è sempre comprensibile ma è abbracciabile». Il minimo di pietas necessaria per guardare con umanità alla triste vicenda di Gaza, ci costringe ad accettare il fatto che per decenni quella crisi non è stata abbracciata, cioè messa stabilmente in agenda, ma è stata piuttosto dimenticata, obliterata e celata dietro i tanti interessi contrapposti. Davanti ai morti israeliani e palestinesi nessuno può dichiararsi assolutamente innocente.

Incomprensibile

È saggio dunque non schierarsi né fare a gara per “comprendere”, il che diverrebbe uno scarico di responsabilità sui soli due contendenti. La barbarie non è mai razionalmente comprensibile. Ciò che serve con assoluta urgenza è “abbracciare” quell’incomprensibile vicenda, per cercare di non lasciar mai più soli i protagonisti, attualmente presi nel gorgo dell’odio che li acceca e li spinge verso orizzonti senza prospettive.

Le azioni di Hamas sono fuori da ogni logica militare. I bombardamenti israeliani anche, così come le ruspe che vediamo in azione dietro ai carri e che significano “andatevene via per sempre”. Ognuno dei due vorrebbe eliminare l’altro in radice ma non è possibile. Come ricostruire la convivenza? Sarà una strada lunga e faticosa ma è l’unica da percorrere.

Razionalizzare ciò che accade non aiuta, anzi. Se lasciata nell’isolamento qualunque crisi politica si abbrutisce, eternizzandosi in un conflitto crudele capace solo di moltiplicare l’odio. Si tratta di un ingranaggio infernale: per fermarlo occorre “abbracciare” la crisi e spendersi generosamente per risolverla. E’ noto che non c’è stata continuità politica dopo i (pochi) tentativi fatti.

Purtroppo è diventato usuale nel mondo internazionale appellarsi alla “fatigue”: una forma di burn out che spinge tutti a exit strategies frettolose. Sarebbe più onesto dire che non ci si è voluti immischiare. Una crisi –soprattutto una così grave e duratura come quella israelo-palestinese- va “adottata” finché non si incanala stabilmente verso una soluzione ragionevole e praticabile.

Per l’Occidente è necessario mettere in campo una “strategia dell’adozione” politico-diplomatica che accetti di durare per lungo tempo e che non sia condizionata dalle alternanze politiche dei vari paesi. È altresì necessario accettare l’aiuto di chiunque possa favorire la pace, secondo la logica che è meglio non lasciar fuori dalla soluzione ogni possibile spoiler.

In altre parole: essere tutti parte della soluzione e non del problema. Infine è indispensabile servirsi di un pragmatismo –questo sì- razionale: non tutto sarà possibile per entrambi i contendenti ma si dovranno fare delle rinunce. Quando devi rinunciare a qualcosa è meglio essere accompagnato che restare solo e isolato con il rischio di irrigidirti o fuggire nel negazionismo. Anche in politica o geopolitica la solitudine degli stati e delle organizzazioni può diventare quella malattia in più che poi si paga a caro prezzo.  

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