Con le immagini di corpi e volti nascosti dal burqa, le donne afghane tornano a rappresentare il simbolo dell’oppressione fondamentalista islamica. Non solo: dopo il collasso delle istituzioni di Kabul di fronte al ritorno dei talebani, il destino di quelle giovani donne, cresciute nella faticosa conquista di libertà, istruzione, lavoro, evoca la fragilità del modello democratico e dei diritti umani nel mondo.

Per questo, per l’opinione pubblica occidentale, “salvare” le donne e le bambine afghane appare come una priorità unanime. Persino Matteo Salvini sposa l’ipotesi di corridoi umanitari dedicati – beninteso, solo a loro: «Porte aperte per migliaia di uomini, fra cui potenziali terroristi, assolutamente no».

Di contro, voci critiche come quella della scrittrice Igiaba Scego mettono in guardia verso il “white saviorism”, cioè la retorica paternalista dell’occidente bianco: «le donne afgane», ha scritto su Facebook, «non vogliono essere salvate, vogliono essere appoggiate nella loro battaglia di autodeterminazione. Non cercano salvatori/salvatrici, ma alleate e alleati».

Naturalmente, come hanno mostrato le immagini di persone fuga all’aeroporto di Kabul, tante donne e tanti uomini vogliono letteralmente essere messi in salvo fuori dai confini del paese. Ciò rende particolarmente urgente l’apertura di corridoi umanitari. Tuttavia, le critiche alla retorica umanitaria colgono un aspetto cruciale: passata l’onda emotiva, queste risposte rischiano di lasciare immutata la realtà, esonerando le democrazie occidentali dal volgere lo sguardo al proprio interno, alle proprie politiche in materia di frontiere, migrazioni e asilo, con speciale riguardo proprio alle donne.

L’Afghanistan è la seconda nazionalità per numero di domande d’asilo nell’Unione Europea e, secondo i calcoli dell’Ispi, sono almeno 310.000 le persone di questo gruppo oggi prive di protezione, di cui circa 60.000 sono donne, quasi la metà minorenni.

Al di sotto delle accorate denunce dei diritti conculcati in altre parti del mondo, la realtà è che le nostre procedure d’asilo stentano a riconoscere come forme di persecuzione la violenze che hanno luogo nel “privato”, le violazioni della libertà, della salute, dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne – anche per l’assenza di riferimenti al “genere” nel diritto internazionale dei rifugiati.

Nel nostro libro Donne senza Stato, Ilaria Boiano ed io sosteniamo che per rispondere alla richiesta di protezione di donne che subiscono violenze di genere nel proprio paese occorrerebbe «un sistema rivisitato sotto il profilo dei presupposti e che potrebbe trovare ispirazione dal diritto di asilo previsto all’articolo 10 della Costituzione italiana», secondo cui l’asilo va accordato allo «straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche».

Si tratta di una proposta radicale e senz’altro ambiziosa per la vastità dei gruppi umani, in particolare di donne, che potrebbe interessare. Ma come essere all’altezza altrimenti dei principi che professiamo?

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