«Fare ricorso alla violenza per avanzare delle richieste, mettendo a repentaglio la stabilità e la sicurezza, è certamente inappropriato». Per quanto difficile sia immaginarlo, non era alle forze armate (il Tatmadaw in birmano) che Min Aung Hlaing – il demiurgo del colpo di stato militare del 1° febbraio scorso – si riferiva nel pronunciare tali parole: l’atto d’accusa, infatti, era rivolto ai cittadini del suo paese, che, a suo dire, avrebbero provocato, sparando per primi, la reazione dei soldati. In aggiunta, quasi a voler giustificare la necessità di una risposta tanto deprecabile e sconsiderata, egli ha riconfermato che il Tatmadaw è stato costretto ad assumere il controllo del paese a causa dei brogli verificatisi nel corso delle elezioni dello scorso novembre, che avevano consegnato una vastissima maggioranza ad Aung San Suu Kyi e al suo partito, la Lega nazionale per la democrazia. Tale sconsiderata ricostruzione dei fatti ci fa capire bene che aria tiri attualmente in Birmania, un paese che per decenni e a più riprese è stato brutalmente seviziato dalle forze armate e dalla loro insaziabile sete di potere.

La strage

Da quando le proteste popolari hanno avuto inizio, più di quattrocento cittadini inermi – tra i quali diversi bambini – sono stati trucidati in varie zone del paese. Il bagno di sangue non si è placato neanche sabato scorso, quando, paradossalmente, si celebrava il Giorno delle Forze armate, al fine di commemorare l’inizio della resistenza militare contro l’occupazione giapponese, nel 1945. Al contrario, proprio sabato, mentre nella capitale si svolgevano le solenni parate militari, nelle città di Yangon e Mandalay altre cento persone cadevano sotto i colpi dei soldati. A Naypyidaw, invece, il palco delle autorità intervenute in occasione delle celebrazioni non risultava sguarnito: i russi – con cui l’esercito birmano intrattiene da tempo fruttuose relazioni e da cui acquista armi – hanno infatti deciso di testimoniare la propria vicinanza inviando addirittura il viceministro alla Difesa, Alexander Fomin, mentre cinesi, vietnamiti e tailandesi sono stati rappresentati da profili più bassi.

Insomma, mentre l’intera comunità internazionale inorridisce di fronte agli eventi di questi giorni, tanto che Stati Uniti, Unione europea e Regno Unito hanno deciso di introdurre una serie di sanzioni in risposta al colpo di stato militare (anche se ciò non ha ancora sortito alcun effetto sul Tatmadaw), due dei cinque paesi membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, e in quanto tali cruciali per l’accoglimento o meno di eventuali risoluzioni in merito alle sorti della Birmania, hanno omaggiato la plateale ostentazione di forza dei militari.

L’alleato cinese

La preoccupazione della comunità internazionale non sembra aver fatto presa sulla Cina – principale partner commerciale della Birmania – che, fino a questo momento, ha derubricato il colpo di stato a un mero “rimpasto” di governo, rifiutandosi seccamente di condannare le molteplici violazioni dei diritti umani da parte delle forze armate birmane, sostenendo come non si debba interferire negli affari interni di un paese sovrano.

Il ritorno dei militari al potere ha spinto molti a supporre che ciò potesse portare indietro le lancette al periodo tra il 1988 e il 2011, quando, sempre a causa della violenta repressione da parte del Tatmadaw dei gruppi pro-democratici, la Birmania piombò in un isolamento pressoché assoluto, infarcito da molteplici sanzioni e dall’annullamento di qualsiasi aiuto di tipo economico. Il rischio di un immediato tracollo convinse i militari a rivolgersi all’unico attore che avrebbe potuto garantire loro sostegno economico e protezione in ambito diplomatico (segnatamente presso le Nazioni unite), vale a dire Pechino. L’intervento cinese non si fece attendere e si materializzò non solo attraverso un rinnovato impulso agli scambi commerciali (e l’ampia fornitura di armi), ma anche tramite il massiccio intervento volto alla ricostruzione e alla modernizzazione infrastrutturale del paese.

Sotto lo scudo cinese, la giunta militare birmana riuscì a consolidare il proprio potere nel corso degli anni Novanta; ciononostante, il Tatmadaw non ha mai nascosto la sua diffidenza nei confronti di Pechino, considerata poco affidabile a causa del tradizionale supporto offerto a gruppi di ribelli comunisti in zone sensibili della Birmania. Fu proprio questa sfiducia che convinse, nel 2010, l’allora presidente birmano Thein Sein ad accogliere le “richieste della popolazione” aprendo il paese a nuovi partner, a inclusione degli Stati Uniti.

Effetto Aung San Suu Kyi

Neanche la Cina, però, ha mai amato il Tatmadaw, ritenuto incompetente, corrotto e imprevedibile: proprio per questo motivo Pechino non ebbe alcun problema ad accettare il cambiamento politico iniziato in Birmania nel 2011 e incentrato attorno alla figura di Aung San Suu Kyi, con cui Xi Jinping negoziò una serie di accordi per la realizzazione di infrastrutture finanziate attraverso gli schemi di investimento della Nuova via della seta. Avendo investito così tante energie nel nuovo corso politico birmano e avendo compreso quanto importante sia, per favorire gli investimenti, poter contare su un governo stabile e legittimato a livello internazionale, Pechino non è di certo appagata dal trovarsi nuovamente ad avere a che fare con i militari. Tuttavia, nessun paese ha elevato la realpolitik a dogma tanto quanto la Cina: la leadership di Pechino non nutre amicizie indissolubili, ma ha interessi perenni. Nonostante il buon rapporto avuto con Aung San Suu Kyi e il suo partito, Pechino non si farà sfuggire l’occasione di negoziare con chiunque governi la Birmania, inclusi i militari, almeno fino a quando questi decideranno di mantenere i porti aperti alle navi cinesi, di alimentare il commercio bilaterale e di consentire a Pechino di fruire di gas e petrolio che la Birmania possiede in grande quantità. La moneta di scambio, come già evidenziato, sta nell’impermeabilità che la Cina può offrire al Tatmadaw nelle sedi diplomatiche internazionali, rifiutandosi di imporre qualsivoglia sanzione, e nella disponibilità a collaborare in maniera feconda con chiunque emerga in futuro al comando della Birmania.

La comunità di destino

La Cina non è disposta a sacrificare la propria idea di “comunità dal comune destino”, vale a dire un ordine regionale a guida cinese, che include la Birmania così come il resto dell’Asia sudorientale. Per realizzare questo obiettivo, Pechino ha bisogno di stabilità nella regione e non sarebbe probabilmente disposta ad appoggiare un regime militare isolato e sanzionato da gran parte della comunità internazionale; ciononostante, nel caso in cui il Tatmadaw dovesse riuscire a dare stabilità alla Birmania, Pechino non avrebbe alcuna difficoltà ad amoreggiare con i militari, nonostante i reciproci sospetti.

Allo stato attuale, tuttavia, sembra difficile immaginare che i leader golpisti birmani – scollegati dai cambiamenti che hanno negli ultimi anni investito la società del paese – possano trovare delle soluzioni efficaci per governare una nazione già preda di profondi conflitti etnici e risentimento religioso. La Cina è ovviamente consapevole e preoccupata del fatto che tale situazione possa danneggiare i suoi investimenti pubblici e privati (come dimostrato dagli attacchi alle aziende tessili cinesi presenti in Birmania) e, presumibilmente, non interverrà in difesa del Tatmadaw lasciando che siano gli altri, Stati Uniti in testa, a guidare la protesta contro i soprusi dei militari, nonostante tale indifferenza vada a scapito della reputazione internazionale della Cina.

Le decisioni cinesi non dipendono dall’atteggiamento della comunità internazionale: l’obiettivo principale di Pechino – vale a dire la stabilità politica della Birmania – coincide in massima parte con ciò che la comunità internazionale richiede; la differenza sta nel fatto che la Cina non guarda alle caratteristiche politiche del governo in carica. Che siano militari o ferventi democratici poco importa; è sufficiente che facciano gli interessi di Pechino.

© Riproduzione riservata