All’inizio di How to pay for the war – il pamphlet apparso nel 1940 che conteneva una proposta “radicale” intorno ai mezzi per far fronte alla Seconda guerra mondiale – Keynes scriveva: «Non è facile per una società libera organizzarsi per la guerra. Non siamo abituati a dare ascolto a esperti o profeti. La nostra forza risiede nella capacità di improvvisare. Ma è necessaria anche una mente aperta nei confronti di idee non ancora sperimentate. Nessuno può dire quando tutto questo finirà. Nelle questioni militari si sa che la maggior garanzia di una rapida conclusione è un piano che consenta di resistere a lungo. È assurdo basarsi su un presupposto diverso in campo economico – cosa che in questo momento stiamo facendo».  

La rilevanza di questa citazione sta nel fatto che è avvenuto qualcosa, nell’ultimo mese, che impone a questo punto di avere un piano economico per il lungo termine. Si tratta del passaggio, graduale ma distinto nelle sue linee prospettiche, dalla “guerra economica” delle sanzioni dei primi cento giorni – che ha causato e causerà danni permanenti all’economia russa – all’“economia di guerra” del prossimo inverno.

Le manovre di Putin

Da un mese circa Mosca ha con forza iniziato a manovrare quantità e prezzi, con un impatto sull’inflazione e sulla possibilità di raggiungere gli obiettivi di stoccaggio per l’inverno, mettendo l’Europa «in maggiore difficoltà», come ha detto Draghi a Kiev, dal momento che la «Russia incassa esattamente come prima, se non di più».

C’è poi anche un rovesciamento psicologico: dalla guerra economica trainata dalle sanzioni occidentali ci ritroviamo a prospettare un’economia di guerra caratterizzata dalla restrizione energetica, non per una nostra decisione dalla quale avremmo tratto almeno un vantaggio morale, ma per una ritorsione di Putin. Questo tipo di rovesciamenti, anche psicologici, sono fisiologici nel corso di una guerra. Fin dall’inizio è stato detto che sarebbe stata una guerra di perseveranza, anche della volontà.

Il sogno d’inverno di Putin – l’incubo dell’Europa – è spegnere alternativamente la luce in questo o quel paese, gettando governi e opinione pubblica nel panico e in una profonda recessione. Questo a sua volta spingerebbe a una «degradazione e radicalizzazione delle élite», come ha auspicato nel suo discorso al Forum economico di San Pietroburgo. Ne seguirebbe l’appeasement o il caos – o entrambi.

Il punto è che Putin può perseguire questa strategia soltanto alternativamente e progressivamente, perché la Russia può ridurre le forniture di gas ma non può interromperle, non a tutti e non a tutti contemporaneamente, senza infliggere a sé stessa un danno proporzionalmente maggiore, perché l’Europa è il suo acquirente principale e Mosca non ha, nel breve termine, alternative di mercato. Putin scommette sulla divisione dell’Europa e sul tempo (breve, secondo lui) in cui questa divisione prenderà forma. Spetta all’Europa smentirlo.

Coordinare per non frammentare

Se dunque siamo o stiamo per entrare in un’economia di guerra, l’Europa di oggi ha un piano? Oppure si affida alla capacità di adattamento alle circostanze? Dobbiamo allungare lo sguardo.

La differenza di fondo è che mentre la sola “guerra economica” modificava il tono dell’economia europea, in senso stagflazionistico attraverso l’aumento dei prezzi e il rallentamento della crescita, ma non ne comportava una modifica degli assetti, l’economia di guerra – che dal punto di vista dell’esperienza storica è caratterizzata da elevata inflazione, elevato indebitamento, maggior intervento dello stato nell’economia, razionamenti – richiede un grado di coordinamento intraeuropeo molto più ampio e più stretto.

Coordinare significa mettere a fattore comune risorse e volontà per resistere (e mostrare di poter resistere) il più a lungo possibile. Il punto di fondo è se entreremo in “economia di guerra” come blocco economico – il che consentirebbe di muoversi in un ambiente aperto, connesso e liquido –, o come paesi singoli costretti a chiusure e nazionalismi che sarebbero, in questa fase, esiziali per noi e per gli alleati.

Occorre coordinare per non frammentare. Questa formula ha molte accezioni (si pensi al rischio di una “frammentazione energetica” in cui un paese trattiene per sé il gas di cui ha bisogno impedendo che possa liberamente fluire tra paesi), ma una tra queste appare particolarmente importante per il futuro.

Alleanza nell’autonomia

Si tratta del coordinamento – nell’autonomia – della politica fiscale e della politica monetaria in tempo di guerra. Il problema, infatti, non è il rialzo dei tassi di interesse in sé, giacché l’inflazione c’è e in alcuni paesi europei è molto elevata (anche se si tratta di una inflazione “importata”, contro cui i rialzi sono un’arma spuntata se non controproducente, e non inflazione da surriscaldamento della domanda come negli Stati Uniti). Il punto critico sono il quadro politico e i tempi in cui si collocano queste decisioni.

La Bce, che sia prima sia con maggior chiarezza dopo l’annuncio del lieve rialzo dei tassi previsto per il 21 luglio, si è detta pronta ad agire per evitare la «frammentazione finanziaria» nell’area dell’euro – cioè pronta a intervenire per contrastare l’apertura di un divario (spread) eccessivo nei costi di finanziamento tra paesi europei alimentato essenzialmente da fattori psicologici e non da fattori reali –, si trova esposta alle critiche di chi trova politicamente (e non tecnicamente) fondato l’argomento della “frammentazione finanziaria”. Si tratterebbe – argomentano i critici – di un passo in direzione del finanziamento monetario del debito. Non è una critica nuova. Ma introduce elementi di incertezza e di tensione non necessari che complicano un quadro che ha invece bisogno di certezze e di riferimenti anche per il lungo periodo.

A chi trova l’argomento non fondato si può rispondere, rifacendosi alle “lezioni” del decennio trascorso (il 26 luglio il “whatever it takes” compirà dieci anni), che l’integrità dell’euro è la precondizione perché possa esistere un’area monetaria con questo nome e con un obiettivo di stabilità dei prezzi.

Ma non basta. Occorre che il Consiglio europeo batta un colpo, prospettando uno schema finanziario europeo per l’emissione di titoli di debito comune, che abbia caratteristiche di replicabilità per tutto il tempo in cui durerà questa guerra, al fine di raccogliere risorse da impiegare per far fronte al costo della guerra e agli investimenti che essa rende necessari. La guerra metterà sotto pressione i bilanci nazionali, e i bilanci nazionali non potranno, da soli, sopportarne il peso senza tensioni sui mercati.  

Un’alleanza nell’autonomia tra politica fiscale e politica monetaria consentirebbe anche di evitare, per i prossimi mesi (anni?), di caricare sulle spalle della Bce l’intero onere di assicurare la tenuta dell’area euro. Potremo forse anche imparare qualcosa che tornerà utile quando la guerra sarà finita.

Nessuno sa quanto durerà questa guerra. All’ampia disponibilità di risorse energetiche della Russia, l’Europa potrebbe opporre, grazie alla stabilità istituzionale della moneta, un’ampia capacità di finanziamento in un mondo in cui vi è un eccesso di risparmio. «La maggior garanzia di rapida conclusione è un piano che consenta di resistere a lungo». Luglio è forse l’ultimo mese per annunciarlo. L’inverno è il terreno della Russia.

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