La prima telefonata fra Xi Jinping e Volodymyr Zelensky dall’inizio dell’invasione è stata «lunga e significativa», ha detto il presidente dell’Ucraina, ed è un peccato che in poco meno di un’ora di chiamata il leader cinese non abbia trovato il tempo per pronunciare le parole “Russia” e “guerra”, che sono brevi e piuttosto significative.

Questo almeno secondo i resoconti dei media di stato cinesi, che invece danno spazio alla promessa di «non gettare benzina sul fuoco», che è una frase fatta, non un fatto.

Del resto, il tweet con cui Zelensky ha commentato una chiamata a lungo attesa non conteneva particolari aperture o speranze: il presidente si è limitato a dire che il contatto «darà un impeto potente allo sviluppo delle relazioni bilaterali», che suona come una vuota circonlocuzione in diplomatichese se paragonata alla «amicizia senza limiti» proclamata fra Mosca e Pechino e nella sostanza riaffermata con la visita di Xi in Russia il mese scorso.

Zelensky ha lasciato che fossero i suoi consiglieri a definirlo «un passo importante per mettere fine alla guerra», concessione che legittima il ruolo a cui la Cina ambisce, quello di arbitro e mediatore delle controversie globali, svolto in maniera esclusiva dagli Stati Uniti nel “momento unipolare” dopo la fine della Guerra fredda.

A Mosca hanno colto al volo l’opportunità per piegare anche questa circostanza alle esigenze del regime. La portavoce del ministero degli Esteri ha lodato la «prontezza con cui la parte cinese ha fatto uno sforzo verso un processo negoziale» e ha svelato che la trattativa non andrà da nessuna parte, perché «queste iniziative non vengono adeguatamente considerate dai burattini manovrati da Washington».

Il senso dell’esercizio di cinico sarcasmo dell’aggressore è chiaro: gli Ucraini che combattono per conto (e con le armi) della Nato non possono accettare un realistico ed equilibrato piano di pace proposto dalla disinteressata Cina perché in realtà non vogliono alcuna pace. Il problema è che la Cina non ha un piano di pace realistico ed equilibrato, non è un attore disinteressato e di benzina sul fuoco, per stare alla formula di Xi, ne ha già buttata parecchia.

Dietro il velo retorico dell’equidistanza la Cina ha spezzato l’isolamento diplomatico della Russia e ha contribuito a tenere in vita la presentabilità di Vladimir Putin agli occhi del mondo non occidentale. Pechino tiene in piedi la sanzionata Russia comprando quantità senza precedenti di gas e offrendo all’alleato un decisivo sostegno economico: i commerci fra i due paesi sono cresciuti del 40 per cento nel primo trimestre del 2023 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Giusto pochi giorni fa l’ambasciatore cinese presso l’Ue, Fu Cong, ha definito «illimitati» i legami fra Cina e Russia. Il regime di Xi si ostina a proclamare la sua neutralità almeno dal punto di vista militare, ma anche quella è una leggenda a cui pochi riescono a credere. Da mesi gli ucraini denunciano la presenza di componenti cinesi negli armamenti russi e fra i documenti classificati americani filtrati online recentemente ci sono anche tracce degli accordi per le forniture militari di Pechino.

Qualche settimana fa Putin ha anche incontrato il ministro della Difesa cinese, Li Shangfu, e non risulta che abbiano discusso di caccia e pesca. Finora la Cina ha proposto un piano di pace in dodici punti che aveva almeno due notevoli difetti: il primo, la totale vaghezza dei termini; il secondo, le parti non vaghe sembravano scritte da Lavrov. Nemmeno la più significativa delle telefonate può cambiare queste premesse. 

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