È mia impressione che ci sia un fraintendimento riguardo il dibattito interno israeliano, che spesso influenza le analisi del conflitto in corso. Mi pare si sia diffuso il pregiudizio assai semplificatorio che questa sia la guerra di Bibi Netanyahu. Argomento divenuto il veicolo per negare a Israele il diritto alla sicurezza e riproporre l’immagine degli israeliani (leggasi ebrei) vendicativi carnefici.

Come se tutto si risolvesse nel sentimento di vendetta di Netanyahu e non riflettesse un sentimento di tradimento diffuso nel paese, attaccato proprio nelle zone più coinvolte nella pace. Con le mappe dei kibbutzim assaltati consegnate dal personale di Gaza cui era stato offerto lavoro. Con la mente delle operazioni, quel Yahya Sinwar ancora nascosto nella città sotterranea sotto la Striscia, che deve la vita ai medici israeliani che l’hanno operato di un tumore al cervello prima che dalle prigioni ebraiche uscisse come uno dei mille detenuti scambiati per il soldato Shalit.

E ancora, come se in Israele non fosse diffusa la convinzione che di gente simile non ci si può più fidare e che, se un errore c’è stato, è aver sopportato fino a oggi lanci di missili, palloni incendiari, tunnel da cui sbucavano killer nel proprio territorio. E che ora, costi quel che costi al paese in termini economici e di mobilitazione militare, bisogna farla finita una volta per tutte, azzerando la capacità di colpire di Hamas. Anche da qui si capisce l’accondiscendenza verso la strategia distruttiva utilizzata dall’esercito di Benny Gantz, che agli occhi occidentali dovrebbe rappresentare il contraltare di Netanyahu.

Anche sui numeri la narrazione è diversa e si accusa l’occidente di essere cascato nella propaganda dei terroristi, che ben conoscono le corde delle nostre opinioni pubbliche, ben pronte a scambiare un movimento dichiaratamente antisemita, omofobo, della stessa risma dei tagliagole che abbiamo combattuto in questi anni con un movimento di liberazione nazionale figlio dell’embargo israeliano, scambiando la causa con l’effetto.

Tra quei numeri da noi forniti senza alcuna distinzione, così si dice in un paese, va sottolineato, dove è rimasta vigile la coscienza critica, seppur appesantita dai meccanismi di censura del clima di guerra, si contano migliaia di militanti di Hamas, che nella Striscia vanta un esercito di decine di migliaia di uomini. Vengono riconosciuti errori, ma la maggior parte delle vittime civili viene attribuita alla strategia di Hamas di utilizzarli come scudi umani, ammassando armamenti sotto gli ospedali, le scuole, le sedi dell’Onu.

Non vengono tanto messi in discussione i numeri, la distruzione di Gaza è sotto gli occhi di tutti, ma la loro narrazione. Ci si chiede come siano compatibili un sistema sanitario e infrastrutturale al collasso e la raccolta di numeri così precisi sulle vittime (genere, età) quando è bastato il Covid a mandare in tilt i conteggi dei più avanzati sistemi sanitari nazionali.

Onestamente, nessuno sa la verità ed è lecito, in uno scenario così catastrofico, aspettarsi il bombardamento di civili inermi in un caso e l’arsenale sotto l’ospedale in un altro. In ogni caso, questo è il sentimento israeliano, i morti vanno in conto a Hamas che ci ha costretto alla guerra.

Il dopo Netanyahu

Dove, invece, si scava un solco è sul dopo. Netanyahu, da anni in sfida permanente contro ogni potere dello stato, appare intenzionato a restare in sella nonostante le pressioni interne ed esterne. E sembra scommettere su un prolungamento del conflitto per evitare elezioni che si preannunciano catastrofiche, privandolo dell’unico scudo possibile per ripararsi dai processi.

Proprio per questo, l’uomo è pericolosissimo e va fatto cadere per cedere il passo a qualcuno che possa trasformare questa guerra nell’opportunità di affrontare problemi ormai inderogabili, seguendo la road map tracciata dagli Usa e appoggiata dai sauditi.

Il Medio Oriente ha dimostrato, e a mio modo di vedere sta ancora dimostrando, di ricercare stabilità e di essere pronto a barattarla in cambio dello storico riconoscimento di Israele nell’area. È vero gli Houthi, è vero Hezbollah, ma l’estensione del conflitto avrebbe potuto essere infinitamente maggiore.

Perché Israele raccolga questa opportunità deve risolvere il proprio scontro interno. A quel punto sarà chiaro che il 7 ottobre è stato uno dei più grandi traumi nella storia del paese, ma non quel punto di non ritorno per cui niente è più come prima. Gli schieramenti contrapposti sono esattamente gli stessi del giorno prima, quando lo stato ebraico era attraversato da proteste senza precedenti. In ballo ci sono visioni diverse di Israele e dell’ebraismo tutto.

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