Il vessillo bianco dei talebani sventola su sempre più città e villaggi in Afghanistan, mentre le truppe internazionali ammainano le loro bandiere e si preparano al ritiro definitivo dal paese, dopo vent’anni di conflitto. Nelle ultime settimane i talebani hanno conquistato quasi cento delle quattrocento province afghane e sono riusciti a prendere possesso del distretto di Panjwai, porta d’ingresso per la città di Kandahar, storica roccaforte dei combattenti coranici. Ma il sud non è l’unica area del paese che sta lentamente cadendo nelle mani dei talebani. Di recente, i guerriglieri hanno preso il controllo di sei distretti della provincia settentrionale del Badekhshan, costringendo centinaia di militari afghani a scappare nel vicino Tajikistan e impegnando l’esercito regolare su più fronti.

A pesare sulle capacità di risposta dei militari afghani è la mancanza del supporto aereo statunitense, da anni indispensabile nelle operazioni contro i talebani e venuto meno con il graduale ritiro delle truppe americane dal paese. Le forze aeree afghane non sono in grado di sostituire quelle americane e la loro operatività rischia di ridursi ulteriormente una volta completato il ritiro dei soldati e dei contractor stranieri. A ciò si aggiungono anche i problemi legati all’erogazione del salario e alle limitate capacità di intervento di un numero di soldati troppo ristretto (circa 180mila) per un paese così vasto. Tutti limiti che hanno permesso ai talebani a prendere il controllo di diverse aree senza combattere, offrendo semplicemente ai soldati governativi la possibilità di lasciare le loro postazioni ed avere così salva la vita. Una proposta che in molti non si sono sentiti di rifiutare, lasciando però armi ed equipaggiamenti di produzione straniera in mano ai talebani.

Gli stessi abitanti dei villaggi si sono in molti casi arresi ai combattenti coranici, ben sapendo che nessuno sarebbe corso in loro aiuto. Il governo di Kabul ha infatti deciso di concentrare il grosso delle forze a difesa delle principali città del paese, lasciando così sguarnite le aree rurali che pure rappresentano la maggioranza del territorio afghano. Il presidente Ashraf Ghani ha cercato di fermare l’emorragia di defezioni e di rese minacciando di arrestare chiunque collabori con i talebani, ma il suo governo è troppo debole per poter fare davvero qualcosa. Lo stesso Ghani deve fare i conti con la delusione dei cittadini e dei suoi avversari politici, che chiedono una maggiore condivisione del potere e una migliore risposta all’avanzata dei talebani.

I combattenti, dal canto loro, hanno tutte le intenzioni di continuare a prendere il controllo di città e villaggi in attesa del definitivo ritiro delle truppe straniere, la cui assenza potrebbe aprire la strada verso la conquista di quei grandi centri urbani per ora inaccessibili. L’avanzata dei talebani coincide tra l’altro con un aumento del loro peso al tavolo negoziale, il che spiega il desiderio dei combattenti di ritardare il più possibile la ripresa dei colloqui di Doha. Il processo di pace è bloccato ormai da mesi e i recenti tentativi di riavviare il dialogo tra Kabul e talebani non hanno prodotto risultati, lasciando spazio alle armi.

I signori della guerra

Il vuoto lasciato dalle forze internazionali e la debolezza dell’esercito afghano hanno portato al risorgere di vecchi e nuovi signori della guerra e alla creazione di milizie private di stampo etnico. Nomi come quello del generale uzbeko Abdul Rashid Dostum, di Atta Muhammad Noor o ancora del tagiko Mohammed Ismail Khan sono tornati a risuonare in Afghanistan, mentre sui social vengono diffusi video e foto di gruppi armati pronti a combattere per difendere il paese dalla minaccia talebana.

A destare particolare interesse nelle cancellerie occidentali è il movimento denominato Seconda resistenza guidato dal figlio di Ahmad Shas Massoud il leone del Panjshir. Leader carismatico diventato in seguito eroe nazionale, Massoud è stato uno dei leader più influenti nella guerra contro i sovietici prima di diventare negli anni Novanta uno dei comandanti dell’Alleanza del nord, il movimento che riuniva tutti i gruppi non pashtun impegnati nella lotta contro i talebani. È stato assassinato il 9 settembre 2001. Vent’anni dopo, Ahmad Massoud ha deciso di tornare in Afghanistan e di seguire le orme del padre impegnandosi a sua volta contro i talebani e i movimenti fondamentalisti.

Massoud, 32 anni, ha vissuto per anni nel Regno Unito e ha studiato presso il Royal Military College di Sandhurst, l’accademia per la formazione iniziale degli ufficiali dell’esercito britannico, per poi laurearsi in studi sui conflitti armati al King’s college di Londra. Una volta tornato in patria nel 2016 ha riunito intorno a sé alcuni vecchi combattenti un tempo vicini a suo padre e dato vita a un movimento da lui stesso chiamato Seconda resistenza, riprendendo anche la bandiera dei mujaheddin e l’inno dell’Alleanza del nord.

Richieste di sostegno

Massoud ha cercato fin dall’inizio di ottenere il sostengo di Stati Uniti, Francia e Regno Unito e il ritiro delle truppe straniere gli ha fornito l’occasione per rafforzare i rapporti con le intelligence occidentali. Una volta terminata la missione in Afghanistan, i servizi segreti stranieri dovranno fare affidamento sulle fonti locali per avere informazioni sui talebani e gli altri movimenti estremisti sul territorio e Massoud potrebbe essere l’uomo giusto per questo lavoro. Se infatti non tutti gli analisti sono convinti delle capacità militari del figlio del leone del Panjshir, il prestigio del suo nome e le risorse di cui gode sono sufficienti per renderlo una fonte di informazioni preziosa in cambio di un certo grado di sostegno. Ad avere remore nei confronti di Massoud sono principalmente i servizi segreti americani, non del tutto convinti che un ragazzo così giovane possa convincere combattenti più anziani e con ruoli di prestigio nel Governo a seguire i suoi ordini. Diverso invece l’approccio dell’intelligence francese, la Dgse, che sembra avere maggiore fiducia nelle capacità di Massoud anche in virtù dello storico rapporto con il leone del Panjshir, ucciso da due miliziani di al Qaida travestiti da giornalisti.

Il giovane leader ha promesso di difendere la democrazia afghana e di lottare contro i talebani se questi cercheranno di prendere il potere con la forza, ma in passato ha spesso criticato anche il presidente Ghani attirandosi così le ire di Kabul. Ad oggi Massoud può contare sull’appoggio di milizie dislocate nelle province settentrionali di Takhar, Baghlan, Kunduz e Samangan da cui può difendere il Panjshir, la valle che ha resistito agli attacchi tanto dei sovietici quanto dei talebani.

Le divisioni etniche

Non è ancora chiaro se Massoud e le altre milizie nate in tutto il paese si uniranno per fronteggiare insieme all’esercito di Kabul la minaccia talebana, come già successo negli anni Novanta con l’Alleanza del nord. Al momento i diversi gruppi si muovo senza coordinarsi tra di loro con l’obiettivo primario di difendere il territorio o l’etnia di appartenenza. Esempio emblematico è a questo proposito la milizia hazara, nata per proteggere la minoranza sciita già in passato finita nel mirino dei talebani e nuovamente sotto attacco. Un’alleanza con le forze non pashtun aiuterebbe di certo l’esercito nazionale, già provato dalle numerose defezioni e bisognoso di nuove leve.

La proliferazione di milizie però porta con sé dei rischi. La divisione su base etnica e settaria anche sul piano paramilitare potrebbe ampliare le fratture all’interno della società e dare così vita ad una guerra su più livelli che trascinerebbe inevitabilmente il Paese nel caos. Facendo così il gioco dei gruppi estremisti che in Afghanistan hanno trovato rifugio e che l’operazione Enduring Freedom non solo non ha debellato ma che ha anzi contribuito indirettamente a creare. Un simile scenario sarebbe un problema per la sicurezza tanto dell’Afghanistan quanto dell’occidente.

 

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