L’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista Mustapha Milango hanno trovato la morte sul tratto chiamato delle “tre antenne” della strada nazionale Rn2 della Repubblica Democratica del Congo, che attraversa il Kivu e va da Goma a Rutshuru.

Si tratta di una strada considerata “gialla” secondo i gradi di allerta e sicurezza in vigore nell’area, il che significa non particolarmente pericolosa. Il nostro ambasciatore l’aveva già percorsa così come fanno continuamente le agenzie umanitarie. In questa occasione Attanasio era trasportato dal Wfp-Pam (il programma alimentare mondiale i cui quartieri generali sono a Roma) e con lui c’era Rocco Leone, numero due della missione dell’organizzazione in Congo, anch’esso un italiano.

Niente scorta

La scelta di non farsi scortare dalla Monusco, l’operazione dei caschi blu delle Nazioni Unite in Congo, è stata dovuta probabilmente al basso grado di allerta su quel tratto, anche se poco più in là da dove Attanasio è stato attaccato, due turisti inglesi erano stati rapiti sulla medesima strada nel 2018. Nel febbraio dell’anno scorso sempre su quel tratto un gruppo armato non identificato aveva rubato i 100mila dollari delle paghe dei soldati del 3416° reggimento dell’esercito regolare, uccidendo tutta la scorta.

Rimane quindi valida la domanda fondamentale: perché malgrado tutto questo la strada era considerata “gialla” e l’ambasciatore non era scortato? È a tale quesito che va trovata risposta per cambiare le regole d’ingaggio in quella zona, soprattutto a riguardo dei nostri diplomatici. In Congo Democratico, così come in numerosissime altre aree del mondo, la sicurezza totale non è evidentemente possibile.

Nel 1993 nella capitale Kinshasa fu ucciso l’ambasciatore francese addirittura dentro la sua residenza, da una pallottola vagante come si disse. Vanno continuamente aggiornate le regole di sicurezza perché è proprio l’abitudine routinaria a diventare micidiale, com’è accaduto questa volta. Assuefarsi a percorrere una strada (come nel caso della Rn2) non significa che a un certo punto, senza preavviso, divenga improvvisamente pericolosa. Occorre che i servizi di sicurezza e le agenzie dei servizi (nazionali e internazionali) aggiornino le loro mappe in permanenza, per poter essere efficaci. Inoltre è necessario che ci si scambino stabilmente informazioni. Si tratta di funzioni pesanti e laboriose ma assai necessarie e per le quali occorre spendere e investire.

Esiste un altro aspetto da sviscerare: chi e perché ha preso la decisione del conflitto a fuoco da parte dei ranger del parco Virunga nei confronti del tentativo di rapimento (questa è la versione accreditata fino a oggi), tanto da farlo fallire ma anche finire in tragedia. C’è da dire che a gennaio uomini armati mai identificati avevano ucciso sei ranger in un’imboscata dentro il parco nazionale ed è probabile che la tensione sia ancora alta.

Le conseguenze della sparatoria

Forse (ma è un davvero un forse) senza la sparatoria l’ambasciatore e il carabiniere sarebbero ancora vivi e ora saremmo di fronte a un altro scenario. I ranger del parco sono un corpo militare ben armato, anche perché la zona è infestata di milizie, gruppi ribelli, bracconieri e contrabbandieri. Detto questo ci si può concentrare su chi può aver commesso l’attacco.

Saperlo con certezza è difficile perché i due Kivu, assieme all’Ituri poco più a nord, sono da tempo fuori controllo e nelle mani di centinaia di milizie (le stime vanno da 150 a oltre 200), frutto avvelenato della guerra del Congo (1996-2002) che ha lasciato in queste due regioni un’eredità di sangue, rancori e odio ininterrotti. In altre parole nei Kivu e in Ituri il conflitto non è mai terminato e molti gruppi vivono del mestiere delle armi, saccheggiando la popolazione, mischiandosi laddove possibile con i traffici di materie prime o rapendo congolesi e occidentali.

In quelle regioni si vive di guerra anche dopo la guerra: una violenza diffusa che si è incistata nell’economia locale ed è rappresentata dalle onnipresenti milizie. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti, gli assalitori parlavano in kinyarwanda cioè nella lingua del vicino Ruanda. Tuttavia popolazione ruandofone sono presenti in Congo orientale da circa tre secoli. A esse si aggiungono i profughi del Ruanda che, a partire dai tragici eventi del 1994 e durante tutte le fasi successive, sono entrati in Congo e vi dimorano ancora. Tra questi anche coloro che sono accusati di aver commesso il genocidio e i loro discendenti. Per tale ragione il primo gruppo a essere additato sono state le Forze democratiche di liberazione del Ruanda (Fdlr), cioè i successori dei genocidari.

Gli analisti stanno cercando di capire ma è certo che le Fdlr, sebbene abbiano smentito, sono uno dei possibili colpevoli perché presenti nell’area. Tra Goma e Rutshuru e nelle zone adiacenti, oltre all’Fdlr operano altri due raggruppamenti: i Nyatura e l’M23 (Movimento del 23 marzo), i quali tendono frequenti imboscate, rubano e rapiscono, com’era avvenuto ai due turisti britannici. L’Fdlr è stato creato nel 2000 come fusione tra le ribellioni originate dalle ex truppe ruandesi del precedente regime hutu sconfitto e altre milizie hutu minori. Assumere un nuovo nome fu un tentativo per cancellare lo stigma della complicità con il genocidio.

Fdlr è il nome dell’ala politica, mentre l’ala armata viene chiamata Foca (forze combattenti Abacunguzi, cioè “i salvatori”). Dopo alcuni anni le Fdlr hanno subìto alcune scissioni, la più importante delle quali nel 2016 ha portato alla creazione del Cnrd (consiglio nazionale per il rinnovamento e la democrazia) operante però in Kivu sud. Nel tempo le Fdlr hanno perso molti comandanti, arresi o catturati. Oggi le loro attività si limitano alla zona di Rutshuru e nel nord Masisi (a ovest di Goma) e la forza del gruppo è stimata tra i 500 e i 1.000 combattenti.

Gli altri gruppi

Un altro gruppo scissionista dalle Fdlr operante in zona è il Rud (raggruppamento per l’unità e la democrazia) nato nel 2007, che controlla alcuni villaggi nel territorio di Rutshuru. Le fazioni chiamate Nyatura (coloro che colpiscono forte in lingua ruandese), sono attive dal 2011 nel Masisi e nella regione di Rutshuru, in collaborazione con la comunità hutu congolese, cioè gli hutu ruandofoni presenti in Congo da decenni se non da secoli.

Le milizie Nyatura sono molteplici: il movimento è sorto durante gli anni Novanta come sistema di mutuo soccorso degli hutu congolesi nei confronti delle altre etnie autoctone e dell’esercito regolare. I Nyatura rivendicano la difesa degli hutu congolesi anche dai Mai-Mai, le milizie derivanti dalle altre etnie. In generale i Nyatura operano in maniera indipendente ma localmente possono realizzare alleanze con le Fdlr.

Il M23 (Movimento 23 marzo ) è invece una milizia tutsi creata nel 2012 in difesa della comunità ruandofona tutsi del Congo (ad esempio i banyamulenge). Sostenuto dal Ruanda post genocidio, nel novembre 2012 l’M23 riuscì anche a occupare per alcune settimane la città di Goma ma oggi, dopo scissioni varie e numerose sconfitte, è ridotto a poche centinaia di uomini ancora debolmente attivi nel territorio di Rutshuru e nel Masisi.

Infine, tra i possibili responsabili si potrebbero aggiungere alcune milizie dei ribelli Mai-Mai (che significa “acqua acqua”), nome generico che si danno i difensori armati delle etnie non ruandofone, né hutu o tutsi. I Mai-Mai Afarpm (alleanza delle forze armate dei resistenti patrioti Mai-Mai) sono espressione della comunità Nande e avversari di tutte le milizie hutu o tutsi, considerati invasori e occupanti. Costoro conducono in zona un racket di estorsioni, traffici illeciti, coltivazioni di marijuana, contrabbando e rapimenti. Accanto a loro i Mai-Mai Parem (Patriotes résistants), anch’essi di origine Nande, sopravvivono con attività di imboscate e rapimenti.

Come si vede si tratta di un pulviscolo di raggruppamenti, residui della grande guerra del Congo ma soprattutto della frammentazione etnica che ne è conseguita. Alcuni media hanno parlato della possibilità che a compiere l’attacco sia stata l’Adf (Alleanza delle forze democratiche), una milizia ribelle ugandese trasferitasi in Congo che ora sembra aver fatto un patto di adesione con l’Isis, mutando da guerriglia etnica a gruppo jihadista. Tuttavia sembra improbabile che l’Adf si sia spinta così tanto a sud perché la sua zona di operazioni sta sulla punta estrema nord del Kivu settentrionale (a nord della città di Beni) e nella regione dell’Ituri. 

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