Nella guerra d’Ucraina gli Stati Uniti credono d’aver trovato la soluzione al massimo dilemma strategico che li attanaglia. “Come dividere Cina e Russia”. Ovvero come scongiurare di affrontare un campo composto da due nemici di grande taglia, con il rischio di finire annientati dalla cumulata grandezza altrui.

Del resto, grammatica impone che il metodo più semplice sia distruggere la coesione tra i due soggetti, giocando il più debole contro il più forte. Proprio come Washington realizzò quarant’anni fa, quando, su imbeccata dell’allora segretario di Stato Henry Kissinger, aprì alla Cina maoista per staccarla dall’Unione sovietica – allora Pechino era il soggetto meno potente. Come pure hanno immaginato le presidenze statunitensi che si sono susseguite dal termine della guerra fredda, da Bill Clinton a Bush figlio, da Obama a Trump. Senza riuscire nell’impresa nonostante i personali sforzi. Non solo perché la Casa Bianca dispone di limitati poteri, insufficienti per stabilire la tattica da applicare. Come raccontato da Scenari, gli apparati statunitensi hanno puntualmente rifiutato tale manovra nel timore di perdere il controllo sull’Europa, tuttora il continente decisivo del pianeta. Sicché Gli Stati Uniti si erano rassegnati alla propria asimmetria strategica, definita dall’esistenza in Asia del loro principale nemico e dall’impossibilità di avvicinare l’Orso russo insistente sulla penisola europea. Prima che l’invasione russa dell’Ucraina suggerisse di utilizzare gli eventi per affrancarsi da tale incongruenza. Per creare un sostanziale iato con il resto del continente, compattato dalla rinnovata paura di una Russia imperiale. Per provocare il dilaniamento sul campo dell’armata russa, oltre all’annichilimento economico causato dalle sanzioni. Fino a impedire a Mosca di incidere sull’Europa, fino a renderla troppo debole per sostanziare la sfida cinese all’egemonia statunitense. Nella convinzione di archiviare l’annoso rompicapo strategico attraverso l’affossamento di uno dei due contendenti. Eppure tale disegno potrebbe provocare conseguenze assai imprevedibili e dannose per gli Stati Uniti. Con l’occasione per Pechino di drenare le migliori risorse della Federazione russa, aumentando il proprio peso specifico. E la possibilità che Mosca scateni una guerra nucleare, qualora si percepisse con le spalle al muro.

La strategia americana

Al di là delle semplificazioni elettorali, sono gli apparati securitari statunitensi – dal Pentagono alla Cia – a decidere strategia e tattica della superpotenza. Da tempo questi hanno sviluppato l’amara certezza di non poter conciliare l’apertura alla Russia con il controllo sul continente europeo. Specie nei primi anni Duemila, quando la Germania ha inaugurato il collegamento diretto tra sé e il gas siberiano, in sigla Nord Stream, per sostentare la propria industria. E la Francia ha cominciato a sognare un immenso spazio che da Lisbona giunge a Vladivostok, per imbracare Berlino dentro uno schema più ampio, stringendola tra due potenze nucleari. Allora si diffuse nelle agenzie americane la consapevolezza che, imploso il blocco comunista, le principali cancellerie occidentali intendevano abbracciare Mosca. Specie se Washington l’avesse affrancata dello stigma del nemico coltivato durante la Guerra fredda, segnalando luce verde ai propri soci.

In realtà negli anni gli inquilini della Casa Bianca hanno provato a emulare Kissinger, capovolgendo la manovra, blandendo Mosca anziché Pechino. Dopo averlo guardato negli occhi, Bush figlio annunciò d’aver riconosciuto in Vladimir Putin «un democratico», segnale ideologico di una possibile collaborazione tra le parti. Barack Obama inaugurò il cosiddetto reset, l’azzeramento dei rapporti diplomatici bilaterali in vista di una palingenesi, pensato nel momento di massima ascesa della Repubblica popolare, all’epoca ritenuta più spaventosa di oggi. Sognante una verticale del potere cremliniana, Donald Trump provò ad ammentare di ideologia un’eventuale intesa con l’ex nemico, vendendo Putin come alfiere dei valori tradizionali, anche contro i democratici accusati di voler traviare il cittadino medio americana. Ma i tentativi presidenziali sono stati puntualmente disinnescati proprio dagli apparati. 

Durante la guerra di Georgia del 2008 il Pentagono sottopose alla Casa Bianca l’opzione di bombardare il tunnel di Roki, passaggio obbligato che conduceva nel paese caucasico le truppe russe provenienti da nord, giungendo a un passo dal conflitto nucleare. Durante il doppio mandato di Obama il dipartimento di Stato si industriò per causare il deragliamento del «reset», manomettendo perfino la traduzione di tale slogan, quando nel 2009 il segretario di Stato Hillary Clinton visitò Mosca per presentare il progetto al suo omologo Sergei Lavrov.  Trump fu sottoposto al primo impeachment perché aveva minacciato di negare a Kiev gli armamenti promessi se le autorità locali non avessero indagato sulle attività finanziarie di Hunter Biden, figlio dell’attuale presidente, dunque anteponendo il proprio tornaconto elettorale all’interesse strategico del paese, per questo denunciato dalla Cia ai media nazionali. 

L’asse tattico

Nell’interpretazione degli stati profondi d’Oltreoceano la svolta aperturista nei rapporti bilaterali con l’Orso avrebbe definitivamente minato il ruolo della Nato, inficiata nella sua missione originaria dall’esistenza di una Russia improvvisamente affrancata dal ruolo di villano designato.

A Washington le nazioni europee furono distinte tra quelle occidentali, inclini a intrattenere eccellenti relazioni con il Cremlino, e quelle orientali fortemente ostili verso Mosca, la Nuova Europa cantata da Donald Rumsfeld. Con il pensiero di smistare i compiti in seno all’Alleanza Atlantica, convogliando i membri più antichi sul contenimento marittimo della Cina, e quelli più recenti sul soffocamento dell’Orso nel suo estero vicino. Di fatto gli Stati Uniti conservavano una palese schizofrenia strategica, costretti ad affrontare il loro principale nemico nell’Indo-pacifico senza distanziarlo dal suo principale socio, pena perdere l’Europa. Di qui la nascita di un’asse tattico tra Pechino e Mosca. Imperi ancestralmente ostili per vocazione ed estensione territoriale, con i cinesi che tuttora considerano gli slavi dei coloni europei abusivamente stanziati in Siberia, con i russi che esprimono un notevole complesso di superiorità nei confronti degli han, razzisticamente ritenuti inferiori alla propria cultura. Eppure temporaneamente membri della medesima lega anti-americana, per schermarsi da un nemico superiore, capace  di alimentarne l’improbabile coesione con la propria indecisione. Tanto da indicare Cina e Russia come principali avversari nei posticci documenti strategici diffusi senza embargo dalle agenzie federali, mera dichiarazione di intenti scambiata alle nostre latitudini per trattati operativi, in cui l’Orso e il Dragone sono indicati come potenze revisioniste dell’ordine liberale, quasi tale ordine fosse di competenza universalistica e non semplice espressione dell’egemonia americana.

Nelle parole dell’influente neocon Matthew Kroenig, «gli Stati Uniti devono prepararsi a sfidare in guerra entrambi i nemici, non vi è alternativa percorribile». Così lo scorso anno Washington aveva accettato il completamento del raddoppio di Nord Stream in cambio di un maggiore impegno della Germania contro la Repubblica popolare, nel pregiudizio che Berlino fosse ormai inutilizzabile in funzione anti-russa. Di qui, il viaggio della fregata Bayern nei mari rivieraschi dell’impero del Centro, avvenuto la scorsa estate per segnalare l’attuazione di tale compromesso.

Scetticismo americano

Prima che l’invasione russa dell’Ucraina sconvolgesse i calcoli. Inizialmente Washington non ha colto il benefico potenziale della vicenda. Nonostante i dispacci d’intelligence che annunciavano come inevitabile l’operazione militare russa, pubblicati soltanto per segnalare al Cremlino l’intenzione di non difendere Kiev, gli apparati d’Oltreoceano non avevano colto la ritrosia di Putin nel giungere alla guerra. In realtà lo scorso gennaio il capo del Cremlino voleva centrare nel negoziato ogni suo obiettivo – senza sparare un colpo. Prima di passare all’attacco con il fallimento delle trattative.

Forse per umana sopravvalutazione del nemico, forse per la tipica nebbia di guerra, nelle prime ore del conflitto gli americani s’erano convinti che l’armata russa avrebbe facilmente occupato l’intero territorio ucraino, che fosse possibile soltanto intervenire sull’economia dell’aggressore attraverso le sanzioni, strumento spuntato là dove la popolazione notoriamente non vive di benessere. Per questo il 25 febbraio la Cia ha immediatamente offerto a Volodymyr Zelensky la possibilità di lasciare il paese, scontrandosi con la volontà del presidente di rimanere al suo posto. Palese segnale dello scetticismo presente negli stati profondi americani.

Prima che gli sgangherati piani militari del Cremlino li convincessero d’essere al cospetto di una clamorosa occasione per colpire duramente Mosca. A fronte delle difficoltà riscontrate sul terreno dagli invasori, a Washington si è diffusa l’idea di profittare del momento. Sul piano tattico, utilizzando la scellerata manovra del Cremlino per isolare la Russia dal continente europeo. Sul piano strategico, stremando l’Orso fino a renderlo un socio dimidiato della Repubblica Popolare.

Impossibilitati a lasciare l’Europa per non perdere la supremazia globale, gli americani si sono impegnati per creare un decisivo iato tra l’occidente e la Russia, abbastanza largo da consentire loro in futuro di occuparsi agevolmente dell’Indopacifico.

L’impegno

Dopo lo sconforto iniziale, l’amministrazione Biden ha cominciato a sostenere massicciamente la resistenza Ucraina. Colta la natura ingiustificabile dell’azione russa, priva perfino di un posticcio casus belli di cui almeno gli americani si dotarono nella campagna di Iraq, ha posto la propria impareggiabile macchina mediatica a disposizione del governo di Kiev,  trasformando nottetempo Zelensky in una indiscussa icona internazionale, capace di rivolgersi con notevole efficacia  soprattutto all’opinione pubblica occidentale, ossia quella che dovrebbe sostenere i costi economici delle sanzioni indirette applicate al Cremlino.

Quindi atterriti all’aggressività russa e dalle immagini strazianti dei bombardamenti, anche i governi dell’Europa occidentale si sono stretti intorno agli Stati Uniti, con una velocità che ha fatalmente sorpreso Putin, sicuro che le necessità commerciali e la dipendenza gasiera avrebbero facilmente spaccato il campo altrui. Invece perfino Germania e Italia, i paesi più legati a Mosca per ragioni economiche, hanno accettato il nuovo corso, ottenendo soltanto di poter continuare a pagare il gas russo attraverso il sistema internazionale di pagamento Swift.

Quindi Washington ha nettamente incrementato il sostegno fornito alle Forze armate ucraine. Biden ha annunciato trasferimenti di armamenti e munizioni verso Kiev per circa un miliardo e 200 milioni di dollari, mentre rimanevano sul territorio addestratori della Nato e funzionari dell’intelligence per perfezionare le tattiche da guerriglia adottate dagli autoctoni e garantire preziose informazioni. 

Anziché abbandonare la contesa, gli Stati Uniti moltiplicavano l’impegno, consapevoli di infliggere notevoli perdite ai militari russi, anche con la presenza in loco di circa 4mila volontari d’Oltreoceano, molti di questi veterani di altre guerre. Intanto l’ex segretario di Stato Hillary Clinton, intrinseca all’attuale amministrazione pure da esterna, enunciava la crudezza del proposito, per cui «l’Ucraina dovrebbe trasformarsi in un nuovo Afghanistan», in ricordo del primo impantanamento capitato ai sovietici negli anni Ottanta per decisiva collaborazione tra la Cia e i locali mujahidin. Cui si è aggiunto lo scenografico intervento di Biden, capace durante l’ultima visita in Polonia di evocare il cambio di regime al Cremlino, prima di raccontare tanta sortita come una gaffe sostanziata dall’avversione morale nei confronti del leader russo. Mentre si trattava del tentativo di instillare il germe della vulnerabilità nel nemico e di impedire al governo ucraino di accogliere con eccessiva prontezza le richieste russe per un cessate il fuoco, visti gli incoraggianti risultati ottenuti dalla resistenza.

Il disegno americano sta certamente mostrando i primi frutti. A causa dei fallimenti registrati, il Cremlino ha decisamente modificato i suoi piani, rinunciando a rovesciare il governo di Kiev, puntando sul puntellamento del Donbass e sul controllo del Mar d’Azov, pure descrivendo tali acrobazie come congrue alla tabella di marcia. Le principali cancellerie dell’Europa occidentale hanno confermato la volontà di riarmarsi massicciamente o almeno di centrare quel 2 per cento del Pil da devolvere al budget della difesa, storicamente richiesto in sede Nato, mentre hanno accettato l’isolamento dell’Orso, anche immaginando di accelerare una diversificazione energetica ormai descritta come indifferibile. Per tacere del più prevedibile tono bellicoso adottato dai paesi dell’Europa orientale, perfino disposti ad accogliere milioni di rifugiati in nome di un drastico indebolimento dello atavico egemone russo.

I rischi

Secondo il progetto americano, Mosca dovrebbe sprofondare nella crisi economica e nella claustrofobia culturale, incapace di agire compiutamente nella penisola europea, di sostenere la causa cinese, con Pechino improvvisamente orfana di un socio pensato come assai potente.

Eppure tale manovra è portatrice di numerosi rischi. Al di là dell’occidente, la Russia non pare isolata, anzi ha riscosso soprattutto il sostegno dell’India, oltre a quello della stessa Cina, impegnata in queste ore a fornire munizioni alle forze armate di Mosca senza scatenare su di sé l’impianto sanzionatorio washingtoniano. Così nel medio periodo la Repubblica popolare potrebbe comunque avvalersi del patrimonio strategico della Russia semplicemente assorbendo a basso costo le sue risorse energetiche e militari, trasformandosi in un soggetto perfino più pericoloso perché ampiamente dominante nei confronti di Mosca – quanto voleva ottenere il Giappone all’inizio del Ventesimo secolo.

Così nel medio periodo i paesi europei, specie al termine della guerra, potrebbero schierarsi contro la chiusura imposta al Cremlino. Soprattutto, come capitato in altri passaggi della storia, se oltremodo schiacciata Mosca potrebbe aumentare la propria aggressività, magari ricorrendo all’utilizzo tattico dell’arma nucleare. Eventualità spaventosa, capace di sparigliare nuovamente le carte, sconvolgendo l’assetto internazionale sognato dagli Stati Uniti, allora chiamati a combattere direttamente l’Orso russo, dopo aver immaginato di inibirlo estromettendolo dalla competizione con Pechino per la supremazia planetaria.

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