I massacri collettivi resterebbero indistinti, numeri enormi al punto da diventare insopportabili. Per questo, per suscitare empatia, c'è bisogno di simboli, di una riduzione a uno che impedisca di non riconoscerne nessuno e ne rappresenti centomila. Tra gli altri, e meglio di altri, ce lo ha insegnato Steven Spielberg nel suo film “Schlinder's list”, tutto in bianco e nero salvo l'immagine di una bambina con il cappottino rosso: lei sola con la sua innocenza, emblema della Shoah.

Ci si affeziona a una storia, un nome e un cognome, una biografia, una fotografia. Non c'è dubbio che il grumo di Olocausto consumato da Hamas lo scorso 7 ottobre abbia la sua personificazione riconoscibile in Shani Louk, 22 anni, doppia cittadinanza tedesca e israeliana, di professione tatuatrice una passione per la musica, la moda e l'arte. Famiglia d'origine cattolica, convertita alla religione ebraica, compagno messicano, identità plurale dunque, lontana da ogni sciovinismo e ogni chiusura etnicista.

Lei con la sua bellezza, le lunghe trecce afro, i tatuaggi sulle gambe, il sorriso largo, l'esplosiva esuberanza, i balli al rave party nel kibbutz di Re'em, sintesi completa del processo di emancipazione della donna dopo il lungo cammino alla scalata dei diritti. Nel repentino cambio di scena, lei caricata su una jeep dai tagliagole cantanti “Allah u Akbar”, uno la prende a calci, un secondo le tira i capelli, un terzo sputa sulla testa sanguinante, è denudata e con le gambe spezzate, esibita come un trofeo, un capretto portato al macello: per i suoi assassini, una provocazione in carne ed ossa. Nel gioco degli opposti, la prorompente vitalità soggiogata al volere di chi in mimetica, fascia verde Islam e kalashnikov non ha altro orizzonte se non la morte. Tanto da far riemergere lo spaventoso slogan jihadista: “Vinceremo perché voi amate la vita e noi la morte”.

Shani Louk era diventata per elezione nostra figlia, sorella minore, fidanzata, perché Shani Louk siamo noi, una raffigurazione di occidente, il biglietto da visita di una democrazia, il concentrato dei nostri valori. Abbiamo osato l'inosabile, sperare nell'impossibile pietas dei sequestratori. Invano. Era, evidentemente una preda troppo ambita, l'occasione per distruggere un modello da abbattere. Ieri è arrivata la notizia che non c'è più. Da un frammento di cranio rinvenuto in un mattatoio di Hamas è stato estratto il dna che ha fugato ogni dubbio. Il presidente di Israele Isaac Herzog ha tratto le conclusioni: “Ciò significa che questi animali barbari e sadici le hanno semplicemente tagliato la testa”.

Il sovrapprezzo dell'efferatezza sembra il tributo sadico a un Dio malinteso, la punizione feroce a un corpo che si rifiutava di essere castigato. Non è l'Islam ma la sua parodia iperbolica, la sua interpretazione fanatizzata, intrisa di odio e sangue. In risposta dovremmo alzare, nelle nostre strade, cartelli con le fotografie di Shani. Quelle serene di prima del suo martirio, dire che non ci piegheremo, dire che in lei di riconosciamo. E che con tutta forza difenderemo la libertà delle sue sorelle sopravvissute.

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