A che punto è la situazione in Siria stravolta da una sanguinosa guerra civile? Un rapido passo indietro nel passato recente può servire a capire meglio il complesso quadro attuale. Il 15 marzo 2011 iniziano le proteste popolari in Siria contro il presidente Bashar al Assad, nato nel 1965 a Damasco e subentrato a suo padre Hafez, morto il 17 luglio 2000 dopo 30 anni di potere ininterrotto.

Le proteste di piazza, all’inizio pacifiche, si trasformano ben presto in guerra civile con un bilancio di almeno 350mila morti e 11 milioni di profughi secondo le più recenti statistiche dell’Onu.

Il 15 agosto del 2011 le potenze occidentali chiedono al presidente Bashar al Assad di dimettersi e di farsi da parte, ma il regime alauita, una minoranza religiosa musulmana vicina agli sciiti, resiste alle pressioni e chiede aiuto alla Russia di Vladimir Putin, che per rientrare nel gran gioco mediorientale dopo la caduta dell’Unione sovietica, nel 2015 manda armi, navi, caccia e militari sul terreno a sostegno del regime. Anche l’Iran degli ayatollah, che cerca uno sbocco al Mediterraneo, manda truppe scelte, i pasdaran, le guardie della rivoluzione khomeinista, a sostegno del governo siriano.

A questo punto la situazione gradualmente volge a favore di Assad. Nel 2016 c’è la svolta del conflitto, quando a nord il regime riconquista la strategica città di Aleppo che era in mano ai gruppi ribelli dal 2012. Il 5 marzo 2020 viene firmato un cessate il fuoco a Idlib, ultimo bastione di ribelli e jihadisti.

Il 27 maggio 2021 Bashar al Assad viene rieletto per un quarto mandato presidenziale con il 95,1 per cento dei voti, nonostante l’occidente e le ong accusino il regime che le elezioni non siano state né libere né tanto meno regolari.

Dopo dieci anni di guerra civile, devono essere ricordati tre dati per capire la situazione siriana: la minaccia dell’Isis è stata ridotta ma non è scomparsa del tutto; le premesse del rovesciamento del regime di Assad si sono rivelate illusorie e, infine, i curdi siriani sono stati abbandonati dagli Stati Uniti ai tempi di Donald Trump. L’ex presidente ha dato il via libera all’invasione turca di aree cuscinetto in territorio siriano fino a 30 chilometri dal confine, dopo che le milizie curde siriane avevano combattuto come uniche truppe sul terreno contro l’Isis.

Nell’inventario della sanguinosa storia siriana va ricordato che dopo 12 anni di esclusione, soprattutto su pressione degli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, la Siria potrebbe rientrare nella Lega araba nel vertice previsto a marzo in Algeria. Insomma Assad è rimasto saldamente al potere mentre i suoi oppositori interni e internazionali hanno dovuto riconoscere lo status quo a Damasco. Recentemente gli Emirati Arabi Uniti, un tempo ostili alla Siria, hanno fatto sapere di voler rafforzare i rapporti con Damasco.

Anche il presidente turco Erdogan, nemico di Assad ma che in passato passava insieme alle rispettive famiglie le vacanze estive al mare con Bashar, ha dovuto ricredersi e venire a patti con Damasco. E soprattutto dimenticare di annettersi Aleppo.

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Idlib adotta il dollaro

Che la presa politica turca sulla Siria, in linea con la politica estera neo-ottomana, si stia allentando è sempre più evidente anche a causa della svalutazione della moneta turca e della politica monetaria di Erdogan. A questo proposito l’ex ala siriana di al Qaida, che guida una coalizione di milizie cooptate di fatto dalla Turchia nel nord ovest della Siria, ha deciso di adottare il dollaro statunitense nelle transazioni petrolifere e di abbandonare la lira turca, sempre più svalutata.

A riferirlo è il The Syria Report, portale di approfondimento economico e finanziario sulla Siria, secondo cui i vertici di Hay’at Tahrir ash-Sham (Hts, Ente per la liberazione della Siria), la coalizione di gruppi armati guidata da Jabhat an Nusra, l’ex ala siriana di al Qaida, ha deciso di passare al “biglietto verde” invece della lira turca negli scambi commerciali da e per la Turchia di carburante, benzina e altri derivati del petrolio. Pecunia non olet.

Un segnale importante di distacco graduale dalla Turchia del presidente Erdogan che è stata la nazione protettrice di questa area. Hts controlla ampie porzioni della Siria nord occidentale fuori dal controllo di Damasco. La stessa zona è sottoposta da anni a una forte influenza politica ed economica turca. La Turchia ambisce a estendere la sua influenza in territori dell’ex impero ottomano e ha infatti truppe militari dispiegate nella zona di Idlib e a nord di Aleppo e si coordina di fatto con le milizie qaidiste nella zona.

Alla luce della svalutazione della lira siriana, Hts aveva due anni fa adottato la lira turca nei territori siriani sotto tutela di Ankara. Ma dopo la drammatica svalutazione della lira turca a causa dei continui tagli dei tassi di interesse, la dirigenza qaidista siriana ha deciso di usare il biglietto verde. Hts controlla direttamente la compagnia Watad, che gestisce il redditizio business dell’importazione dalla Turchia dei derivati del petrolio e della distribuzione a Idlib e aree limitrofe.

Gli impianti chimici

Anche Israele monitora il quadrante siriano con molta attenzione. Tel Aviv ha colpito due volte gli impianti di armi chimiche in Siria negli ultimi due anni in una campagna per impedire alla Siria di rinnovare la produzione di armi chimiche, secondo quanto riportato dal Washington Post. Molti ricorderanno le fumose “linee rosse” evocate dall’allora presidente Barack Obama sull’uso di armi chimiche da parte del regime siriano, linee puntualmente superate senza gravi conseguenze. L’accuratezza del rapporto, che citava non identificati ex funzionari dell’intelligence statunitense e occidentale, è stata confermata a Reuters da una persona a conoscenza dell’operazione che ha rifiutato di essere identificata per nome o nazionalità. L’esercito israeliano ha rifiutato di commentare ma ci sono buone probabilità che lo scenario descritto dal Washington Post sia reale.

Un narco stato

Poi c’è la “bomba” rilanciata recentemente dall’inchiesta del New York Times sull’impero della droga che la famiglia Assad avrebbe costruito in Siria per cercare finanziamenti, pagare le armi e i soldati per riconquistare i territori perduti. Secondo il New York Times la droga commercializzata in Siria è il Captagon, un composto sintetico di anfetamina e altre sostanze.

Ma c’è di più. La produzione e la distribuzione di questa droga sintetica sarebbe saldamente nelle mani dell’esercito siriano e in particolare della quarta divisione corazzata dell’esercito comandata da Maher al Assad, fratello minore del presidente Bashar. Maher è di fatto capo anche della Guardia repubblicana, il nucleo dei pretoriani del regime. Il fratello maggiore della famiglia Assad, Basil, che avrebbe dovuto prendere il posto in linea ereditaria del padre Hafez, morì prematuramente in un incidente d’auto nel 1994 e questo fatto tragico aprì la strada al vertice del regime al fratello Bashar richiamato da Londra dove viveva e dove aveva conosciuto la moglie Asma. Un altro fratello di Assad, Majad, è morto nel 2009.

Ma torniamo alle attività legate alla droga e al ruolo del clan Assad in una attività su cui resta difficile fare stime economiche. Il fatto, denunciato dal New York Times, trasformerebbe la Siria in un narco stato. Un paese dove paradossalmente mancano i medicinali e il presidente Bashar al Assad ha disposto nei giorni scorsi l’aumento dei prezzi di più di 12mila qualità di farmaci, come riporta il quotidiano panarabo Al Arabi al Jadid.

La decisione è stata presa dopo il crollo della produzione di medicinali locali e l’aumento del contrabbando. Da quanto emerso, gli aumenti vanno dal 30 al 50 per cento del prezzo. Antidolorifici e medicinali per bambini sono stati risparmiati dall’aumento dei prezzi. È dunque evidente che la commercializzazione della droga sintetica di cui parla il New York Times sta diventando uno strumento rilevante per finanziare il governo centrale di Damasco in una situazione di bilanci pubblici sempre più in rosso.

Non a caso il Consiglio del popolo, il parlamento monocamerale della Siria, ha approvato a fine dicembre la legge finanziaria per l’anno 2022. I fondi stanziati superano i 13 miliardi di lire siriane (poco più di quattro milioni e mezzo di euro). Poca cosa rispetto alle reali esigenze delle famiglie siriane provate da dieci anni di guerra civile. Ma a pesare sul futuro del paese sono anche le sanzioni europee contro il regime di Bashar al Assad in vigore dal dicembre 2011. Esse includono un embargo petrolifero e il congelamento degli asset della Banca centrale siriana entro i confini dell’Ue. Nessuno, però, a Bruxelles è in grado di rispondere alla domanda cruciale per il futuro dei siriani e dei milioni di profughi: fino a quando durerà questo stato di cose?

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